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Il Foglio sportivo
Quando Ashe diede lezioni di tennis sull'erba di Wimbledon
Jimmy Connors e Arthur Ashe incarnavano due simboli di due Americhe agli antipodi che si guardavano con diffidenza e sospetto. L'entrata sul Centrale di Wimbledon il 5 luglio del 1975 e la gelida stretta di mano a fine partita
Jimbo e Ashe non si sopportavano. Incarnavano due stili, due estetiche, due modi di stare al mondo antitetici, erano i simboli di due Americhe agli antipodi, che si guardavano con diffidenza, sospetto. Uno, Jimmy Connors, cresciuto in una famiglia borghese di Belleville, Illinois, era la quintessenza del wasp, i discendenti dei bianchi anglosassoni e protestanti. L’altro, Arthur Ashe, era il figlio dell’America della segregazione razziale, Richmond, Virginia, in cui i neri potevano al massimo diventare giardinieri nei country club per bianchi. Jimbo imparò a giocare a tennis in casa, dalla madre, Gloria, che, intravedendo le potenzialità del figlio, lo portò da Pancho Segura, tennista e allenatore ecuadoregno, per farlo seguire da un professionista.
Ashe, quando aveva sette anni, non poteva allenarsi all’Us Lta, la Federazione tennistica americana, perché non accettava soci che non fossero bianchi, ma al massimo colpire la pallina nel parco cittadino di Brookfield, di cui il padre era custode, e dove c’erano i campi da tennis riservati ai neri, cemento brutto, pericoloso, reti rotte e palle vecchie. Per i neri, esisteva l’Ata, organizzazione incentrata sulla figura mitologica del Dottor Robert Walter Johnson. È sotto la sua ala protettrice – aveva già portato al successo e alla vittoria in uno Slam (Wimbledon ’57) un’altra atleta di colore, Althea Gibson – che Ashe inizia a farsi conoscere, a far brillare gli occhi agli appassionati di tennis americani e a ridurre in brandelli l’antico e sciocco pregiudizio secondo cui i neri erano bravissimi a correre o a saltare, ma incapaci ad affrontare sport in cui psicologia e tattica fossero prevalenti, come il tennis e il golf.
Nel 1968, l’anno dell’assassinio di Martin Luther King, Ashe diventa il primo tennista afroamericano a vincere lo Us Open e contribuisce in maniera decisiva alla vittoria americana della Coppa Davis. Ma il suo traguardo più importante, lo zenith di una carriera formidabile lo raggiunge nel 1975, con la vittoria di Wimbledon, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario. Nel 1975, Ashe ha 32 anni: non pochissimi per un tennista, soprattutto a quell’epoca. Il ragazzo di Richmond, Virginia, sembra fuori tempo massimo e a Wimbledon non è mai andato oltre le semifinali, nel ’68 e nel ’69. Nemmeno il sorteggio, nel 1975, è clemente sui prati dello Slam londinese. Borg nei quarti, Roche in semifinale, ma soprattutto Connors, allora numero uno al mondo, in finale. Jimbo detestava Ashe per vari motivi e uno in particolare: l’anno prima, da presidente dell’Atp, Ashe gli aveva impedito di iscriversi al Roland Garros in quanto protagonista del World Team Tennis, manifestazione a squadre miste allora in conflitto con l’Atp. Connors, nel 1974, aveva vinto gli altri tre major: l’esclusione dagli Internazionali di Francia gli precluse dunque la possibilità di lottare per il Grande Slam.
È il 5 luglio 1975 quando Ashe e Connors entrano sul Centrale di Wimbledon. Il primo, casco di riccioli afro e eleganza sobria, si presenta con un giubbotto blu su cui campeggia la scritta rossa “USA”. Jimbo, frangetta da Beatles e insolenza tipica dei vent’anni, si presenta con un completo Sergio Tacchini bianco, rosso e verde. I bookmakers danno Ashe a sette contro uno. Connors è strafavorito. Ma fin dall’inizio, il tennista di Richmond gioca un tennis formidabile, a cui nessuno è preparato, soprattutto il suo avversario. Dopo 41 minuti è avanti 6-1, 6-1. Il mancino di Connors non può nulla dinanzi ai colpi soffici e insieme taglienti di Ashe. Jimbo ha un sussulto d’orgoglio nel terzo set: 5-7. Ma al quarto, Ashe chiude 6-4, vincendo cinque degli ultimi sei game: fu il primo e finora unico tennista nero a conquistare i Championships. “Sm-Ashe-D” titolerà il giorno dopo il Telegraph. “Una delle più grandi lezioni di tattica nella storia del tennis”, dirà di quella finale Rino Tommasi. La stretta di mano a fine partita fu gelida, così come la cerimonia di premiazione: i due nemmeno si guardavano, come le due Americhe di cui erano i simboli. Quando lo ospitava d’estate, nei campi di Lynchburg, il Dottor Rober Walter Johnson sussurrava spesso una frase al piccolo Arthur: “Non discutere con gli arbitri. Non discutere con gli avversari. Lascia che il tuo tennis parli per te”.


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