la storia

Il custode di Wimbledon

Mauro Zanon

Richard Jones, anima e memoria della Tennis Gallery, racconta mezzo secolo di storia nel cuore del quartiere più sacro del tennis. Da Chuck McKinley a Roger Federer, passando per Ashe, Panatta e la mitologica Queue

Wimbledon. Entrare alla Tennis Gallery è come entrare in un altro tempo, un’esperienza mistica per chi ama il tennis, come i rovesci di Roger Federer vestito di bianco sull’erba del Centre Court di Wimbledon. The Tennis Gallery, 112 Arthur Road, Wimbledon Park, London, SW19, non è solo una libreria dove puoi trovare testi e riviste in ogni lingua dedicati al tennis e ai campioni del passato, poster e cartoline vintage dell’epoca in cui la televisione era ancora in bianco e nero: è il tempo dei memorabilia dei Championships, del torneo di tennis più elegante del mondo.

Il custode di questo santuario laico è Richard Jones, uno che a Wimbledon è nato e cresciuto, e che ogni anno, per quasi mezzo secolo, ha varcato i Doherty Gates in quella quindicina di giorni tra fine giugno e inizio luglio in cui tutto il mondo del tennis si dà appuntamento a Church Road, sede dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club (Aeltc), lì dove tutto, nel 1877, ebbe inizio. “Il mio primo ricordo di Wimbledon è alla televisione. Era circa il 1963, giocava Chuck McKinley (tennista americano che quell’anno vinse i Championships, ndr). Non sapevo chi fosse, ma era un tipo cool, Chuck, e questo aveva catturato la mia immaginazione. Sei anni dopo, nel 1969, andai a Wimbledon per la prima volta. Abitavo a circa otto miglia dall’Aeltc. Fu un’emozione incredibile, come quando entri per la prima volta a Wembley. Poi vuoi sempre andarci”, dice al Foglio Richard Jones. Quando gli chiediamo chi erano i suoi miti quando aveva vent’anni, Richard non ha dubbi: Roger Taylor, figlio della working class di Sheffield, che raggiunse per quattro volte le semifinali di uno Slam, tre di queste al torneo di casa, ma senza mai accedere alla finale. “Proprio ieri è passato alla Tennis Gallery. Ha firmato alcune copie della sua biografia, appena uscita, ‘The man who saved Wimbledon’. È stato un grande onore potere incontrare il mio idolo di gioventù”, racconta.

Nel 1975, quando Arthur Ashe, il figlio dell’America della segregazione razziale, sconfisse Jimmy Connors, l’antipatico wasp all’epoca numero uno al mondo, Richard era sulle tribune del Campo centrale. “È successo esattamente 50 anni. Arthur Ashe vinse i Championships, sette anni dopo lo Us Open: fu il primo e finora unico tennista nero a trionfare sui campi in erba dell’Aeltc. Ricordo che dopo aver messo a segno il punto decisivo, Ashe andò a rete per stringere la mano a Connors, che quasi non lo guardava. Non si piacevano affatto. Erano due Americhe antitetiche”, dice al Foglio Richard. Che era a presente “a tutte le finali vinte da Björn Borg”, tiene a sottolineare. Gli anni Settanta sono anche gli anni degli italiani. Adriano Panatta? “He was like a film star”, dice Richard, “ma anche un giocatore eccezionale. Così come lo erano Paolo Bertolucci, Tonino Zugarelli, Corrado Barazzutti. Me li ricordo, eccome, i ragazzi italiani che alzarono la Coppa Davis del ’76!”. Quando gli chiediamo se negli ultimi venti, trent’anni c’è un giocatore che lo ha fatto emozionare quanto Borg, McEnroe e le altre leggende del passato, il fondatore della Tennis Gallery ci risponde così: “Sono ancora convinto che vedere giocare Roger Federer sia la migliore esperienza tennistica che un amante del tennis possa vivere”.

Al piano terra della Tennis Gallery, alcune copie del Compendium, la bibbia di Wimbledon, lì dove ogni anno vengono raccolte e aggiornate le statistiche dello Slam londinese, sono posate sul tavolo accanto a un trattato del tennis firmato da René Lacoste, alle biografie di Murray e Djokovic, agli asciugamani iconici verde e viola col simbolo dei Championships, a un’affiche del Roland Garros ’94 e ad alcuni quadri che raffigurano scene di tennis di inizio Novecento. Poi c’è un primo piano, nascosto, a cui si può accedere quando con Richard si crea una complicità tra appassionati di tennis. “Molti oggetti, libri, foto e cartoline della Tennis Gallery sono donazioni di persone che, per evitare di gettarle nella spazzatura per mancanza di spazio o traslochi improvvisi, preferiscono affidarmele”, racconta al Foglio Richard Jones. “Qualche volta partecipo alle aste su eBay. La scorsa settimana, per esempio, ho comprato alcuni cimeli”, aggiunge Richard. Negli anni Novanta, con la moglie Chris, avevano un pop-up shop molto apprezzato durante le partite di qualificazione della Gran Bretagna per le finali di Coppa Davis. “Vendevamo libri e un paio di altre cose. Era molto divertente. Ci piaceva molto”, ricorda Richard Jones. “Poi a un certo punto la gente ha iniziato a chiederci: ‘Ma perché non create un negozio vero e proprio?’. Con mia moglie ci siamo guardati attorno e nel 1999 abbiamo trovato questo spazio vicino alla stazione di Wimbledon Park. Inizialmente la Tennis Gallery si trovava al numero civico accanto. Otto anni dopo, era disponibile lo spazio in cui ci troviamo adesso e ci siamo trasferiti. Sono passati ventisei anni, mi sembra ieri”, dice.

Come ogni anno, la Queue, la mitologica coda di Wimbledon, dove chi non è stato selezionato durante il Public Ballot, mettendosi in fila munito di numerino e tanta pazienza, può ancora sperare di ottenere un biglietto per l’Aeltc, alimenta le leggende più disparate. Ed esistono siti e account social che distillano consigli per massimizzare le possibilità di ottenere il celebre pass, quantomeno per i grounds, ossia per i campi laterali. Ma non è stata sempre così, la Queue. C’è stata un’epoca, racconta Richard, in cui “la Queue era ancora segreta, clandestina”. “Le persone che sapevano dell’esistenza della Queue non ne parlavano molto, per non avere troppi ‘concorrenti’. Ed era certamente più selvaggia rispetto a oggi, era un po’ come il Festival di Glastonbury”, dice al Foglio Richard Jones. Un “Wimbledon lad”, un ragazzo di Wimbledon.

 

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