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Ragioni per innamorarsi di Cobolli, il lato B dell'italian job del tennis

Alessandro Catapano

A Wimbledon il tennista italiano ha battuto Marin Cilic e giocherà i quarti di finale contro Novak Djokovic

Tutto il mondo è paese, per dire che i figli sono pezzi di cuore per chiunque e a qualsiasi latitudine. Qualunque sia la tua provenienza. Dalla Val Pusteria o da Roma sud. E qualunque cosa ti scorra nelle vene, sangue teutonico o latino. Che ti chiami Siglinde Sinner o Stefano Cobolli, che tu prepari stinchi di maiale o insegni tennis, al dunque, sei incapace di trattenere le emozioni, perdi ogni pudore, ti lasci andare. Il modo, sì, è assolutamente personale. Siglinde, con quel nome da mamma roccia di una tribù germanica, sfoga facendo avanti e indietro, entrando e uscendo dalla tribuna, come quelle mamme che non possono vedere i figli venire giù in discesa sugli sci, o andare a trecento su una moto. Al Foro italico, l’hanno vista in questo stato mentre il figlio perdeva un set dall’americano Paul. Stefano, invece, resta fermo al suo posto, ma apre i rubinetti, come una diga, e viene giù un fiume di lacrime. Ieri, seduto all’angolo del campo numero 2 riservato al tennista italiano (una marea di gente, famiglia, staff, l’amico del cuore Edo Bove, mancava giusto un cugino di secondo grado), faceva tenerezza mentre nascondeva il viso nell’abbraccio di Guglielmo, il figlio più piccolo, e a guardarlo veniva in mente quella canzone in cui Concato ricorda i momenti in cui parlava agli animali e si commuoveva davanti a un film. 

 

Ora, si vorrebbe evadere da questo continuo paragone con Sinner, le sue abitudini, la sua straordinaria regolarità (che ultimamente, in verità, si è inceppata un paio di volte), l’enorme ricchezza del suo staff (e pure qui, da qualche tempo le scelte non sono sempre felici), ma raccontare la loro diversità è un modo per allargare gli orizzonti, e comprendere come non ci sia solo una via, quella battuta dal roscio teutonico che per festeggiare al massimo si fa una minerale e un giro in Audi, per arrivare al successo. Lo avevamo già realizzato con Alcaraz, ne abbiamo una conferma con Cobolli. 

 

Il romano Cobolli, che è partito dal profondo sud della Capitale, dove la città digrada non sempre dolcemente verso il mare di Ostia, e si è fatto tennista tra i fighetti del Parioli; il romanista Cobolli, che dopo mille viaggi a Trigoria lasciò il posto sulla fascia destra, lasciando di stucco un certo Bruno Conti (“Mai visto uno con quel talento scegliere un’altra disciplina”), perché, racconta, “lo sport di squadra non faceva per me, volevo poter decidere da solo” (Sinner, invece, è sempre andato in solitaria, con gli sci ai piedi o con una racchetta in mano); il fragile Cobolli, quel talento un po’ mammone che quando gioca davanti al pubblico di casa sente di dover dare di più e, puntualmente, dà meno (al Foro Italico è successo anche quest’anno); il figlio d’arte Cobolli, che a un certo punto rischiava di finire stritolato in questo rapporto con il maestro-papà e invece ora sembra che gli abbia trovato le misure, non solo quelle del campo (un’impresa in cui l’altro non ha dovuto cimentarsi, “perché i miei mi hanno lasciato sempre libero di fare quello che volevo”, e menomale, a quest’ora sarebbe un campione di canederli).   

 

Ecco, dunque, volendo considerare Jannik Sinner e Flavio Cobolli il lato a e b dell’italian job, la sintesi brutale è che noi lo facciamo meglio. Il tennis. Anche a Wimbledon. Soprattutto a Wimbledon (se Flavio batte Djokovic...).

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