Gianni Motta al Tour de France 1965 (foto Getty Images)

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I Tour de France di Gianni Motta

Marco Pastonesi

Alla prima Grande Boucle fu subito terzo. "In quel 1965 costruii la vittoria al Giro del 1966. Le lezioni continuarono subito dopo Parigi. Mentre Gimondi festeggiava la vittoria con riunioni e corse in Italia, io lo feci con circuiti e kermesse in Belgio". Nel 1971 invece dovette ritirarsi per la rottura dello scafoide. 

Tour de France 1965, Gianni Motta: “Prima del Romandia fui investito da una macchina della stampa, mi ruppe il ginocchio e mi passò sopra una gamba. Un mese ingessato, saltai anche il Giro d’Italia. Ricominciai. In una ventina di giorni accumulai un migliaio di chilometri, quattro giorni di corsa al Midi Libre in Francia vincendo una tappa, un’altra corsa neanche finita, e mi presentai alla partenza del Tour in una squadra mista, metà Molteni e metà Ignis, in cui ciascuna metà faceva la sua gara. Ci andai senza pretese, senza speranze, senza illusioni. Era stato Giorgio Albani, il mio direttore sportivo alla Molteni, a insistere. Eravamo giovani e forti, spensierati. E l’idea di correre il Tour mi piaceva”.

Dorsale numero 115: “La prima tappa divisa in due semitappe, la prima in linea, da Colonia a Liegi, settimo, la seconda a cronosquadre, a Liegi, e qui in 22 chilometri perdemmo quasi 7 minuti. Tour già finito? Macché, Tour appena cominciato. Tappa dopo tappa, ritrovavo confidenza. Collezionai piazzamenti: terzo nella crono individuale di Chateaulin, terzo nel tappone pirenaico di Bagnères-des-Bigorre con Aubisque e Tourmalet, secondo nel tappone alpino di Briançon con Vars e Izoard, secondo nella crono finale di Parigi. Avevo ritrovato la forma, finii in crescendo e salii sul podio, terzo dietro a Felice Gimondi e Raymond Poulidor”.

Aveva 22 anni: “E fino a quel giorno avevo partecipato solo a due grandi corse a tappe, il Giro del Valle d’Aosta del 1963 da dilettante e il Giro d’Italia del 1964 da neoprofessionista. Sapevo poco o niente, anzi, niente. Ma fu a quel Tour che cominciai a imparare. Sulla mia pelle. Il giorno del Ventoux mi intestardii a seguire Julio Jimenez, formidabile scalatore spagnolo. Rispondevo a ogni suo scatto, mentre gli altri salivano del proprio passo, lasciandolo sfogare. Finché saltai per aria. Il Ventoux terrorizza per quel suo aspetto vulcanico e desertico, il caldo che raddoppia e rimbalza sulle pietre. Invece io mi finii nella prima parte, quella nel bosco. Mi mancava l’aria, fra i tubi di scappamento delle auto e delle moto, fra sciami di tafani e nuvole di moscerini. E la sensazione che tutti mi corressero contro. Fuga a due con Poulidor. Avevamo un paio di minuti di vantaggio. Una buona occasione, ottima, per tutti e due. Ma lui non tirava. Lo invitai, lo esortai, lo pregai, lo presi per la maglia. Alla fine gli dissi: adesso ho capito perché sei l’eterno secondo. Ma lui niente. E fummo ripresi”.

Il Tour è una spremuta di vita: “Ci si divertiva, ci si accontentava. Si prendeva quello che passava il convento: tappe, trasferimenti, alberghi. Dimostravo meno anni di quelli che avevo, mi consideravano un bambinello, i miei compagni – più bello averli allegri che musoni - mi proteggevano. Giacomo Fornoni, il Maestro, era un matto arrembante, Giuseppe Fezzardi, il Pepp, un matto più moderato, Pietro Scandelli, che a quel Tour non c’era, un matto normale. I corridori veri erano un po’ tutti matti, altrimenti non avrebbero fatto i corridori. Ed Ernesto Colnago non era solo il meccanico della squadra, ma il factotum, capace di risolvere problemi di qualsiasi genere. Tutte le sere a tavola era un cinema. Solo in corsa si faceva sul serio. E un bambinello mi consideravano anche i vecchi del gruppo italiani, da Baldini a Nencini, da Carlesi a Ciampi: sentivo che mi volevano bene”.

Il terzo posto regalò a Motta la consapevolezza nelle proprie qualità: “In quel Tour del 1965 costruii la vittoria al Giro del 1966. Le lezioni continuarono subito dopo Parigi. Mentre Gimondi festeggiava la vittoria con riunioni e corse in Italia, io lo feci con circuiti e kermesse - spesso sul pavè - in Belgio. Di giorno o di sera, brevi ma intense, si correva con il coltello sotto la sella e ci si tirava il collo come se fossero tutti campionati del mondo”.

Motta sarebbe tornato al Tour de France nel 1971: “Correvo per la Salvarani, la squadra di Gimondi, ma qui Gimondi non c’era. Cominciai bene, conquistai la maglia di leader della classifica della montagna, ero sesto nella generale, nella tappa di Grenoble caddi, risalii in bici, conclusi a fatica la tappa, 150 chilometri di dolori fuori dal normale, atroci in discesa quando dovevo frenare, in ospedale da una radiografia non risultò nulla, ma la mano era gonfia, ormai mi faceva male solo ad appoggiarla sul manubrio, mi ritirai fra qualche critica, in Italia altro ospedale e altra radiografia, scafoide rotto, un altro mese ingessato”.

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