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sport e psicoanalisi
Cari illustri tennisti, i vostri flop stagionali non sono sempre colpa di Freud
La solitudine e il malessere esistono anche nei paradisi dorati del tennis, ma non ogni crisi sportiva può diventare un caso clinico. A fronte di sconfitte, jet lag e conti in banca milionari, Zverev chiama in causa la psicanalisi — e suo fratello lo riporta bruscamente alla realtà
Chi non ha avuto una mamma o un papà che – chi più dolcemente chi più sbrigativamente – di fronte alla scodella ancora piena di minestrone o al piatto con il merluzzo o, era un appuntamento fisso, il fegato ancora intonso, non abbia pronunciato almeno una volta la fatidica frase: “Pensa ai bambini che non ce l’hanno”. Il richiamo ai “meno fortunati”, variante moralistica del “o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”, era potentissimo, produceva il duplice effetto, uno, immediato, di farti finire il piatto senza altri mugugni, l’altro, a rilascio prolungato, di insinuare nella tua psiche un senso di colpa che, subdolamente, col passare degli anni sarebbe diventato un compagno di vita, sempre pronto a offrirti un bicchiere di malinconia. Col risultato, anche qui duplice, di generare schiere di adulti talvolta infelici, ma – vuoi mettere – ben consapevoli di cosa succeda nel mondo reale, quello in cui il problema da affrontare quotidianamente è mettere insieme il pranzo con la cena (quando va bene). Non il jet lag, non la vita in alberghi a cinque stelle, non le domande dei giornalisti, non gli allenamenti, non i rovesci degli avversari (ai tempi nostri, talvolta quando i mugugni diventavano ribellioni anche appena abbozzate, il problema era schivare i manrovesci dei genitori, o, variante cattolica, delle suore al doposcuola).
E dunque, c’è la mamma o il padre di ognuno di noi cresciuti in un’epoca in cui il politically correct non aveva ancora mortificato le nostre intelligenze, in quell’intervento in tackle, ruvido ma corretto, che ieri Misha Zverev ha riservato al fratello Alexander, che all’ennesimo flop stagionale, come tanti suoi illustri colleghi pallinari – se il tennis è lo sport del diavolo, la vita cos’è? – ha chiamato in causa Freud e la solitudine dell’uomo bello, bravo e ricco che non riesce più a estrarre felicità da quello che fa, anche se si tratta di infilarsi un paio di mutandoni e rispedire dall’altra parte della rete una pallina, non certo andare in miniera (pure questa si diceva ai nostri tempi, con un certo qualunquismo, quando si osava manifestare una certa stanchezza o, per chi è cresciuto in famiglie più raffinate, quel mal di vivere che in realtà non per tutti aveva a che fare con Montale). E insomma, di fronte alla chiamata in correità di Freud con cui Alexander, sia detto col massimo rispetto per gli oscuri meccanismi della sua psiche, l’ha voluta buttare in caciara dopo essere stato sconfitto da tal Rinderknech sull’erba di Wimbledon, Misha l’ha messo di fronte alla realtà brutale e, ahinoi, sempre attuale, di quella parte del mondo in cui si muore di fame, o di guerra, e comunque, nella migliore delle ipotesi, non si gioca a tennis (al massimo si corre, spesso per scappare). Ma non deve essere semplice far ragionare un fratellone bello, ricco e farfallone, come si diceva una volta di quelli che stavano sempre a ronzare intorno alle donne, anche quelle degli altri, anzi soprattutto quelle. E le difficoltà aumentano se il fratellone talvolta diventa anche cattivone. Ne sanno qualcosa un paio di ex compagne di Zverev, che raccontano di come lui ogni tanto alzasse le mani. Una l’ha proprio denunciato, e il nostro, per evitare guai peggiori, ha tirato fuori 250 mila dollari per chiudere la questione. Chissà cosa ne avrebbe detto Freud. Ai nostri tempi, si diceva “giochi di mano giochi da villano”. E se il tizio non la smetteva, una bella racchettata in testa e via andare. A Zverev farebbe meglio che una seduta dallo psicoterapeuta.