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Il Foglio sportivo

Un viaggio alle origini dei problemi del calcio italiano

Michele Tossani

Tutto nasce dai settori giovanili dove la tattica prevale sul talento. E non dite che non si gioca più in strada

Non disputiamo una partita a eliminazione diretta in un Mondiale dalla finale vinta contro la Francia nel 2006. Da allora, il bilancio è desolante: due eliminazioni nella fase a gironi (2010 e 2014) e due mancate qualificazioni consecutive. La pesante sconfitta contro la Norvegia (che mette seriamente a rischio anche l’accesso ai Mondiali nordamericani del prossimo anno) riporta drammaticamente al centro del dibattito il tema della crisi del calcio italiano. Una crisi profonda, che nemmeno l’episodica vittoria a Euro 2021 è riuscita a risolvere. Quali sono le reali cause di questo declino tecnico?

Non è che il problema è l’eccessiva insistenza sul 5-3-2 con blocco basso come sistema di base? Un’impostazione che porta a costruire giocatori adatti soltanto per quel tipo di calcio, a partire dagli esterni, tutti quinti di gamba, ma senza più i guizzi delle classiche ali di una volta, i Sala, i Causio, i Bruno Conti.

“Avete centrato il problema”, ci dice Beppe Bergomi, campione del Mondo nel 1982, commentatore Sky e allenatore di settore giovanile. “Partiamo da questo presupposto: io conosco bene l’ambiente Inter. Il 3-5-2 di Inzaghi è stato sicuramente fatto in chiave moderna, perché è un 3-5-2 che ci ha fatto divertire… però se andiamo a vedere i numeri questi ci dicono che i nerazzurri sono stati l’ultima squadra per dribbling tentati, nonostante le finali di Champions, lo scudetto e le altre vittorie. La chiave è lì, perché se guardo in giro per l’Europa vedo che la base di partenza è data da tre giocatori offensivi da uno contro uno (mi vengono in mente il Paris Saint-Germain, il Bayern Monaco, il Barcellona, il Liverpool, il Manchester City…)”.

“Gli osservatori che vanno in giro per l’Europa mi dicono che si parte da lì per andare a prendere i giocatori. Una difesa a quattro, con giocatori che sanno reggere l’uno contro uno dietro, con difensori centrali veloci, sicuramente aiuta ad avere un assetto simile con tre riferimenti in attacco”. 

“Ultimamente si sta cercando un’evoluzione, di proporre allenamenti da uno contro uno e di andare a trovare anche quei giocatori di talento che magari non sono pronti, ma che vanno aspettati. A costo di non trovarci nulla dopo. Io ho avuto un grande maestro come Mino Favini quando ho allenato nel settore giovanile dell’Atalanta e lui mi diceva proprio questo, che i giocatori di talento vanno aspettati. Poi ci manca un po’ di coraggio nel farli giocare”.

“Se ci fate caso la nostra Nazionale ha tanti buoni centrocampisti perché, mi dicevano a Coverciano, a un certo punto abbiamo copiato la Spagna, con anche i centravanti che venivano utilizzati per fare sponda e mai per attaccare la profondità. Ora abbiamo trovato qualche centravanti (Kean, Retegui), ma prima c’è stato un momento di grande crisi nel ruolo. Bisognerebbe lavorare lì, nella costruzione di questi giocatori di talento. Però sappiamo che, quando arrivi in alto, il risultato conta tanto in Italia e fai fatica a proporre determinate cose”. 

 

          

 

Insomma, si è cercato di fare un calcio troppo di passaggi e di ‘gioca col compagno’ invece che allevare una sana individualità? “Secondo me non è questo il punto” afferma Filippo Galli, ex difensore del Milan nonché ex direttore del settore giovanile del club rossonero e attuale responsabile dell’area metodologica del Parma. “Il compagno è importante, la collaborazione è importante. Il problema non è che non si faccia più uno contro uno. Il calcio è uno sport di squadra, di collaborazione. Questa cosa va allenata, non la tecnica fine a se stessa. La tecnica la si apprende solo nella situazione di gioco, comprendente i compagni e gli avversari. Poi questo non significa che tu non debba fare l’1 contro 1, assolutamente… ma togliamoci dalla testa che i problemi si risolvano lavorando sull’individualità. Si lavora sulle squadre si lavora l’individualità all’interno delle squadre”.  

Per Simone Contran, allenatore e collaboratore di Roberto Mancini con Italia e Arabia Saudita, la questione riguarda la “metodologia d’allenamento. Anche quando diciamo che le Nazionali giovanili vincono: è vero (io ho lavorato con le selezioni giovanili), ma perché la preparazione degli allenatori e l’organizzazione tattica è ottima. Otteniamo risultati (vittorie e finali Europeo U17 e U19, finalisti Mondiale U20) non per il talento, ma per l’organizzazione tattica. Se vai a vedere i giocatori dell’Inghilterra, della Spagna, della Francia, della Germania… loro hanno molto più talento di noi. I risultati sono una cosa, le performance sul campo sono altre. Non bastano i risultati per dire se c’è o non c’è talento. Noi partiamo dall’idea che, se vinci, allora hai dei buoni giocatori. Non è così. Se vinci con le giovanili hai una buona organizzazione tattica, che sopperisce alle lacune qualitative”. 

“Poi sì, fin da piccolini si gioca troppo sul passarsi la palla, stop e passaggio… bisognerebbe invece giocare molto più 1 contro 1, far cambiare ruoli ai ragazzi, non farli giocare in posizioni fisse: oggi fai il portiere, domani fai il difensore, dopodomani l’attaccante…”.

“Dire che non si gioca più in strada non c’entra nulla, ormai non si gioca più in strada da nessuna parte, nemmeno in Brasile…”.

“Il 5-3-2 poi ammazza veramente ali e trequartisti, che sono l’essenza del calcio. Poi facciamo fatica anche a livello fisico. Pensiamo di avere giocatori fisici, ma poi, a livello di intensità, in campo internazionale fanno fatica”.

Secondo Andrea Carnevale, responsabile scouting dell’Udinese, è anche una questione di mentalità. “Avendo a che fare con i giovani, vedo anche la differenza fra i ragazzi di allora e quelli di adesso”. 

“Io penso che ci fosse più passione, molto più cuore, molta più volontà, molta più fame di arrivare. Questi termini riguardano me, ma anche tutta la vecchia generazione di giocatori di una volta”.

“Totti è stato l’ultimo grande campione e ha smesso otto anni fa. Ogni epoca ha avuto i suoi campioni, ne abbiamo avuti fino al 2006. Quella squadra lì è stata l’ultima Italia di campioni. Oggi vedo tanti bravi ragazzi, buoni giocatori di Serie A, ma non ci sono più i fuoriclasse assoluti”. 

Come si capisce, il problema è complesso e non esiste una soluzione semplice o univoca. Al momento, sotto il profilo della qualità, siamo nettamente indietro rispetto alle Nazionali più forti. Spetta alla Figc, nei prossimi anni, il compito di trovare le soluzioni per colmare questo divario e riportare il movimento ai livelli di un tempo.