Nicoletta Romanazzi (Getty)

Il colloquio

Nella testa dei campioni. Fra psiche, emozioni e respiri profondi

Alessandro Catapano

Nicoletta Romanazzi da oltre 20 anni affianca atleti, artisti e manager. Li aiuta a gestire emozioni, pressioni e insicurezze per esprimere al meglio il proprio potenziale.  “L’atleta perfetto? Quello sempre in equilibrio. Come Sinner” dice la mental coach

Per inquadrare subito il suo raggio d’azione, far comprendere in pochi secondi cosa faccia e dove intervenga quando viene chiamata in soccorso, torniamo al mese di febbraio di quest’anno, alla serata finale di Sanremo, al quarto posto di Fedez, impronosticabile alla vigilia. Lei, Nicoletta Romanazzi, da 24 anni affermata mental coach, una sfilza di campioni e personaggioni – “Alcuni insospettabili di cui non rivelerò l’identità nemmeno sotto tortura” – che ha fatto respirare, “proprio così, respirare ci libera dalle tossine, scioglie le emozioni e ci riporta a quando eravamo bambini leggeri…”, lei, origini pugliesi, romana del quartiere Flaminio, tre figlie femmine (una è la sua assistente e social media manager, un’altra fa la mental coach come lei, la terza è una stilista), un’accademia che ha una lista d’attesa lunga così, insomma lei che l’oro olimpico di Marcell Jacobs quattro anni fa portò brutalmente alla celebrità, fu l’ultima persona che Fedez incrociò prima di salire sul palco, facendolo – appunto – respirare. Un respiro profondo, che lo portò ai piedi del podio e, diciamocela tutta, lo riabilitò pienamente. Ma la vittoria più grande il rapper l’aveva ottenuta riuscendo a calcare quel palcoscenico nonostante tutto quello che gli era accaduto: aveva affrontato e sconfitto i propri demoni, aveva fatto i conti con le proprie fragilità e aveva ripreso a volersi bene, senza badare a quello che pensava, diceva, faceva il mondo esterno. 

  
Tutto questo grazie al lavoro mentale? Su quanto sia importante lavorare su psiche ed emozioni prima di una prestazione, negli spettacoli come nello sport o nella finanza (la Romanazzi assiste anche manager di successo, sconosciuti al grande pubblico, ma ai primi posti nella dichiarazione dei redditi, direbbe il Finocchiaro di “Compagni di scuola”), ancora ci si divide. “Ad esempio, se parliamo di sport, per anni ho incontrato la resistenza di alcuni allenatori, soprattutto quelli di una certa età – svela: per loro, cresciuti in un’altra epoca, il lavoro mentale era una perdita di tempo, non volevano che mi avvicinassi ai loro giocatori, pur non avendo grandi competenze dal punto di vista mentale ed emozionale. Oggi le cose sono diverse, da quel mondo c’è più apertura nei nostri confronti, in molti cominciano a capire che possiamo essere d’aiuto anche a loro, sono convinta che presto si troveranno delle forme di collaborazione. Lo sa bene Mourinho, lavoravo con uno dei suoi alla Roma”

 
Altra forma di resistenza, non banale, la oppongono gli psicoterapeuti. Soprattutto quelli che lavorano nei club o nelle federazioni sportive. “Facciamo due mestieri diversi, abbiamo competenze differenti, guai se invadessi il loro campo, li rispetto ma sono convinta che ci sia spazio per tutti”. Del resto, i risultati dimostrano che le due figure possono convivere benissimo. I benefici sono innegabili. Non per forza immediatamente traducibili in medaglie o campionati o record mondiali, ma in un progresso delle performance sì, e molto spesso il risultato ne è una logica conseguenza. Per restare alle Olimpiadi Tokyo, l’oro e il bronzo di Luigi Busà e Viviana Bottaro nel karate, ma anche il quinto posto nel canottaggio di Jeannine Gmelin, “una svizzera con cui avevo lavorato solo online”. Per avvicinarci ai giorni nostri, i progressi sul green di Francesco Laporta, che da quando “frequenta” la Romanazzi ha ottenuto la carta per il tour europeo, e quelli con la racchetta di Francesco Passaro – “me lo presentarono la prima volta a 16 anni, ma non era ancora pronto, del resto trovare la forza di farsi aiutare non è da tutti, poi mi ha richiamato lui” –, che agli Internazionali di Roma ha battuto Dimitrov dopo venti minuti di respirazione profonda. “Golf e tennis sono gli sport più difficili da trattare, indubbiamente quelli che richiedono maggior lavoro: tempi imprevedibili, a volte lunghissimi, il colpo sbagliato è sempre dietro l’angolo, e quando sbagli entri in un loop per cui la paura di sbagliare ti fa puntualmente… sbagliare di nuovo”. Ma ci torneremo sul tennis.


Intanto, abbiamo detto, né psicoterapeuta, né motivatore – “per carità, sbaglierei tutto, non ci si rivolge a me per cercare una motivazione, la motivazione in realtà è sempre dentro di noi” (questa ricorda un po’ il Quelo di Corrado Guzzanti) – ma allora cos’è un mental coach? “Un allenatore della mente, che ti aiuta a utilizzare al meglio il tuo potenziale, lavorando sulla motivazione…”. Che è dentro di noi, ok, “ma va gestita, stimolata, tenuta viva, pensate a un portiere di riserva che non gioca mai o a un calciatore che era titolare fisso e improvvisamente con un nuovo allenatore finisce in panchina. Da anni, lavoro con Mattia Perin e Matias Vecino (portiere della Juventus e centrocampista della Lazio, nda), quando non giochi con regolarità è dura, ma devi farti trovare pronto e, a volte, farti bastare pochi minuti”. 

  
Spesso, invece, il lavoro è inverso. “Un mental coach deve aiutarti a riconoscere quando è il momento di abbassare il volume…”. Questa è bella. “Sì, ogni tanto bisogna decelerare, arginare i sé primari”. Oddio, che sono? “Sono i tratti della nostra personalità che vorrebbero arrivassimo sempre primi, quelli che non concepiscono altri piazzamenti se non una medaglia d’oro, ci impediscono di riconoscere i nostri risultati, generano continua insoddisfazione e, a lungo andare, ci espongono al rischio di infortuni, perché ci spingono a non fermarci mai, impedendoci di ascoltare il nostro corpo, anche quando ci manda chiare richieste di aiuto”. Quello che, a naso, deve essere accaduto a Federica Brignone, che qualche mese fa, al termine di una super stagione, con una Coppa del mondo generale in tasca, ha cercato la massima performance anche ai Campionati italiani ed è successo il patatrac. “Come si dice? La mente mente, il corpo non mente mai...”. Che spiega anche l’importanza del respiro, “per tutti, più o meno campioni, sportivi e non, serve a ossigenare il corpo, ad allinearlo con la mente, è una specie di sbornia, dovremmo tutti imparare a respirare e invece tendiamo sempre ad andare in apnea”. Eppure, basta poco. “A Jacobs di solito servono giusto cinque minuti, a Passaro una ventina, non di più. L’importante è respirare bene”.


Per tutti, però, ci sono tre regole fondamentali, “su cui non transigo. La prima: prendiamoci la responsabilità dei nostri risultati. Smettiamola di individuarla all’esterno. Dobbiamo funzionare nonostante tutto, anche nelle avversità”. E la seconda? “Non disperdiamo lo sguardo né le energie, indirizziamo la nostra mente nella direzione che abbiamo individuato per raggiungere il nostro obiettivo”. Mmm. “Ve lo spiego con un esempio. Al motociclista Luca Marini ho detto: non concentrarti sul pilota che hai davanti, ma sugli spazietti che hai per superarlo. Mi dispiace che sia stato vittima di una brutta caduta, ma sono convinta che tornerà presto e più forte di prima. E’ lo stesso approccio che deve avere un rigorista nel calcio: se sei spaventato ti focalizzi sul portiere che subito diventa gigantesco. Meglio guardare le parti libere della rete”. Manca la terza. “Non farci condizionare dall’esterno. Su questo, il migliore è stato Gigio Donnarumma, che ne soffriva particolarmente, e invece poi ha fatto passi da gigante, con me è riuscito a capire come rendersi impermeabile ai rumori di fondo dello stadio e ha smesso di soffrire, poi ha imparato anche come mantenere la concentrazione in ogni momento della partita, anche quando la palla è lontana e gli avversari non si avvicinano mai”.


Domanda delle domande, chi è l’atleta perfetto? “Quello sempre in equilibrio”. Ne vede qualcuno in giro? “In questo momento, direi Jannik Sinner, un fenomeno a gestire le emozioni, a non farsi condizionare, a cambiare strategia, a non arrendersi di fronte alle difficoltà, a dire anche dei no. E’ un super lavoratore, ma ha imparato – come ha detto lui stesso recentemente in un’intervista – quanto sia importante ogni tanto staccare la spina. Anzi, come dico io: abbassare il volume. Ha talenti e doti caratteriali che lo aiutano, certamente, ma so che anche lui si fa aiutare da un mental coach, e fa bene. Per un numero uno che ha l’umiltà e l’intelligenza di capire che è fondamentale lavorare sull’aspetto mentale, ci sono ancora tanti, troppi atleti di qualsiasi disciplina che pensano sia una vergogna chiedere l’assistenza di un professionista. Ecco perché, pur non amando questa visibilità, trovo sempre utile raccontare la mia esperienza: non c’è nulla di cui vergognarsi, anzi. E mi pare di aver letto recentemente che anche un ragazzo intelligente e talentuoso come Edoardo Bove da tempo si faccia aiutare. Ecco, per ogni campione che ne parla, c’è almeno un giovane atleta che si convince a fare la stessa cosa”. Fino ad oggi, nonostante i suoi 23 anni, Sinner è stato bravo anche a gestire il successo. Sul tema, la Romanazzi ha in rampa di lancio un libro, il terzo, che uscirà il prossimo anno. “E’, forse, l’impresa più ardua per ogni atleta, fare i conti col successo. Ne ho visti tanti andare in tilt. Per molti vincere significa uccidere il sogno che avevano da bambini, cominci a stare male e non capisci il perché, mentre tutto il mondo si aspetta che tu ti ripeta”


A volte, succede di sentirsi arrivati, o capaci di andare con le proprie gambe, anche prima di vincere, figuriamoci dopo. E si finisce di smettere di lavorare su certi aspetti. Quando in realtà la mente va allenata costantemente. “A Marcell Jacobs è capitato proprio questo, lo ha raccontato lui stesso in una puntata del podcast “Più, nella mente dei campioni” che recentemente ho condotto insieme a Mattia Perin: l’ho raccontato tante volte, dopo la semifinale a Tokyo non voleva più correre, in fondo – mi disse al telefono – nessun italiano si era mai qualificato prima alla finale olimpica dei 100 metri, lui si sentiva di aver già fatto la storia e tanto, in quel momento, gli bastava. Ma io capii subito che stava morendo di paura”. E allora, che fece? “Gli ho chiesto di regalarmi venti minuti del suo tempo, abbiamo fatto un bel lavoro sulla respirazione, gli ho ricordato che in realtà il suo sogno di bambino non era arrivare in una finale olimpica, ma vincerla, lui mi ha seguito, ha allineato mente e corpo e… di quel 9”80 ne parliamo ancora oggi, no?”. E dopo il successo? “Aver vinto in quel modo, e aver rivinto poco dopo con la staffetta, lo ha fatto sentire sicuro di sé, ha pensato che da quel momento potesse fare a meno di me, o di chiunque altro, e infatti al ritorno non mi ha più chiamato”. E ora? “Il Mondiale di Tokyo, stesso stadio stessa pista, è vicino, dobbiamo intensificare i nostri appuntamenti (sorride, nda)”. 


Resettare e ripartire, quello che Marcell Jacobs fece tra la semifinale e la finale olimpiche. Quello che deve fare la Sampdoria che ha un’insperata opportunità di non retrocedere in Serie C: “Hanno una nuova occasione, ma per coglierla davvero devono cancellare ciò che gli è accaduto prima”. E lo stesso è chiamata a fare l’Inter dopo la batosta subìta dal Psg in finale di Champions: “Se si fermano troppo a lungo a guardare quello che è mancato, manterranno uno stato d’animo negativo e perderanno fiducia in modo irrimediabile. Devono resettare tutto, ripartire, tornare a contattate i loro punti di forza, per ricordarsi di chi sono veramente”. Infine, altra domanda delle domande: l’atleta preferito? Come in amore, il primo non si scorda mai. “Quando mi chiedono a quale dei tanti con cui ho lavorato sia più legata, rispondo senza indugi: il fantino Andrea Mari, il mitico Brio che negli otto anni in cui collaborammo vinse cinque edizioni del Palio di Siena. E’ stato il primo atleta professionista con cui ho lavorato, indimenticabile: con lui si creò subito un legame particolare, una specie di magia, impossibile non volergli bene nonostante le sue fragilità, e io gli ho voluto bene come a un fratello”. Brio ci ha lasciato quattro anni fa, vittima di un tragico incidente stradale. Volava verso Bolgheri alla guida della sua Porsche, veloce come se montasse Choci, uno dei suoi cavalli, quello con cui vinse il primo Palio, nel 2006, per molti il più bello di sempre. “Dopo quella vittoria, voleva smettere. Finché non ci siamo incontrati. Il lavoro con lui è stato il più complesso ed entusiasmante della mia carriera”.

Di più su questi argomenti: