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ringraziare e non maledire

L'addio di Inzaghi all'Inter non è solo nella débâcle di Monaco

Maurizio Crippa

Qualche numero e qualche ipotesi sull’addio molto annunciato dell'allenatore. Psicopatologie societarie

Qualunque tifoso interista, anche il meno incallito orfano di Mou, avrebbe preferito un addio come quello del Bernabeu, senza voltarsi indietro e lasciando la scia di un incredibile trionfo. E pensare che i rosicones avevano persino provato a irridere i bauscia per quell’addio senza remissione. Meno facile anche per loro ridere adesso, perché l’addio a puntate e mezze frasi di Simone Inzaghi all’Inter è la conseguenza già un po’ metabolizzata di una débâcle paurosa, più che uno “zero tituli”: è il compiuto esaurimento di un ciclo breve ma che è stato di gran bel gioco, di qualche non piccolo trofeo, di alcune partite che consoleranno a lungo gli inconsolabili bauscia. L’addio annunciato di Inzaghi – in Arabia non si va per soldi, chiedere al Mancio, si va per gli amori finiti – ha spiegazioni facili e difficili, in questi giorni ognuno sceglierà i suoi dal mazzo. Il primo è che Inzaghi ha vinto meno di quel che poteva, e soprattutto ha perso a Monaco come mai avrebbe dovuto. Poi c’è altro

Inzaghi è un grande costruttore di gioco, forgiatore di giocatori, indemoniato di un calcio che ha raccolto gli applausi di Guardiola, e questo basta. Ma vincente, non è per forza il suo. Il secondo e più vero motivo è che sapeva lui per primo che il futuro stava invecchiando dietro le spalle, e nessun futuro gli era stato e sarebbe stato promesso. Anche se avesse alzato la Coppa. 

 

                        

 

Poteva finire un tantino meno peggio di come è finita, la storia dell’Inter di Inzaghi. Ma che fosse avviata alla fine era già chiaro in alcuni scricchiolii peggiori di quelli della caviglia di Thuram. “Le strade del club e di Simone Inzaghi si separano. E’ questa la decisione presa di comune accordo”. Del resto per ripartire – tra meno di un mese – dopo un finale di stagione così era impensabile. Ma solo gli ingenerosi e quelli che non capiscono di calcio possono credere che le colpe siano solo sue, e soprattutto che cambiando l’allenatore tutto ritornerà come prima. Come prima di Inter-Barcellona insomma, come nella seconda stella vinta a mani basse. Qualche e maggiore colpa sta ai piani alti. Il bottino di Inzaghi sono sei trofei, la seconda stella, due Coppe Italia e tre Supercoppe, un club riportato ai vertici del calcio europeo dove altre italiane non se ne vedono. E come “manager”, sarà difficile trovarne migliori, e in Italia nessuno ne ha così: per il numero di panchine e di vittorie (217 e 141), per i giocatori presi a zero e trasformati in oro (Chala, Mkhitaryan, Acerbi, Thuram) o fatti crescere in modo impressionante (Dumfiers, Dimarco). Per aver fatto lievitare i ricavi, solo quest’anno più 150 milioni. E tutto questo con una società che per lui ha speso quasi zero: il saldo tra cessioni e acquisti in quattro anni è più 114 milioni.  Milan, Juventus e Napoli nello stesso periodo hanno segnato un rosso  di 270, 206 e 101 milioni. Nonostante la tragedia di Monaco, in questa stagione il bilancio nerazzurro tornerà positivo con il record di introiti della Champions. Altro che dirgli grazie.

Ma siccome il calcio è fatto sì di numeri ma anche di tragedie umane, di destini incrociati, di intrighi scespiriani, c’è anche altro. Per capire e gustarsi (sì, ci sarà chi se la gusta) appieno la tragedia del mite, silenzioso Inzaghi – in un campionato italiano che, dopo aver perso Mou, non ha più trovato un comunicatore di livello mondiale e che con l’addio di Ranieri perderà il suo ultimo signore e rimarrà preda di gutturali urlatori da dopo partita, Inzaghi è stato una elegante eccezione – bisogna guardare in mille pieghe. La colpa di Inzaghi è stata aver creduto quest’anno solo nella Coppa. La colpa anche più grave, forse, è stata quella di non aver saputo governare un gruppo che a quello soltanto, psicopaticamente, ha pensato. Un gruppo cosciente che sarebbe stata per molti di loro l’ultima occasione. Hanno pensato solo a Monaco, e il cervello ha fatto tilt. Ma va detto senza infingimenti: molta colpa anche della dirigenza e della società, di chi ha la barra del timone. Una dirigenza che non ha saputo, evidentemente, imporre alla squadra la giusta tensione. Ma su cui ha pesato l’ignoranza sportiva e la mentalità economicista del fondo speculativo americano Oaktree che, esplicito o implicito, chiedeva non trofei ma solo i fatturati legati ai trofei.  

Ora si vedrà se la proprietà americana dimostrerà di aver compreso qualche regola minimale del calcio – ad esempio che a mercato zero non si vince – o se continuerà con la logica cravattara che, per risanare il bilancio, rischia di affondare il motore che quel bilancio crea e spinge, la squadra. L’impressione di queste ore non induce all’ottimismo. Per cui, più che maledire Simone Inzaghi per quello che ha perso, c’è da ringraziarlo per quello che ha fatto. E tutto il calcio italiano dovrebbe fare lo stesso. Per i tifosi interisti, un pensiero postumo e grato va a oriente, al giovane visionario Steven Zhang che nel suo sogno nerazzurro aveva buttato una passione impensabile, costruendo a sue creative spese il giocattolo (quasi) perfetto.
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"