Girandole #9

Il ciclismo sempre all'attacco di Angelo Tosoni

Marco Pastonesi

Quattro anni tra i professionisti, quattro Giri d'Italia corsi, nessuna vittoria, ma "mille attacchi. Avevo carta bianca, libertà da vendere, iniziative da prendere. Il giorno più bello al Giro del 1979, sesta tappa, la Vieste-Chieti, 260 km, fuga a due con lo svizzero Bruno Wolfer, avevamo un tale vantaggio che da maglia nera reale ero diventato maglia rosa virtuale"

Attaccava al pronti-via. Attaccava ai rifornimenti e ai passaggi a livello. Attaccava in pianura e ai mangiaebevi. Attaccava di istinto e all’improvviso. Attaccava a testa bassa e pancia a terra. Attaccava allo sbaraglio e alla garibaldina. Attaccava perché era l’unico modo in cui si attaccava alla corsa, alla tappa, al Giro, al ciclismo. E, attaccando, Angelo Tosoni si trasformava in un diavolo. Con risultati mai entrati nella storia. E pensare che c’era stato un attacco – che girandola - in cui da maglia nera era diventato maglia rosa.

 

Tosoni, il primo attacco?

“Alla nascita, in campagna, a casa. Famiglia contadina, attaccata alla terra e alle bestie. Due fratelli, uno più grande e uno più piccolo. Poca attenzione per gli studi, poco tempo libero, c’era sempre qualcosa da fare, da dover fare. La bicicletta rappresentava la possibilità di evadere da quel piccolo mondo. Cominciai guardando gli altri. Continuai sfidando gli altri. Su una bici normale, in salita, mi dissero ‘ti tesseriamo’. La mia prima bici era una Profeta, un meccanico di Brescia, usata, aveva preso un colpo in testa, raddrizzata e verniciata, costata 40mila lire. La prima corsa già con i primi, sesto, a Mantova. La prima vittoria da allievo a Paratico. Alle corse si andava in quattro con quattro bici, se non cinque con cinque, su una Fiat 500”.

 

Lei di Castenedolo, come Michele Dancelli.

“Lui dieci anni e dieci giorni più di me. Ma lui era un signor corridore, le cose le inventava, ed è per questo che Eddy Merckx temeva più lui di tutti gli altri, da Gimondi a Motta, da Bitossi ad Adorni e Zandegù, tutti signor corridori. Allora il ciclismo era italiano: corse, corridori, squadre, perfino la lingua. Dancelli era l’eroe del paese e il mio modello. Promettevo. Da junior quattro vittorie consecutive, poi il tendine d’Achille, dilettante, nel 1974 il migliore degli italiani ai Mondiali, nel 1977 passai professionista nella Gbc”.

 

Quattro anni da professionista.

“Nessuna vittoria ma mille attacchi. Avevo carta bianca, libertà da vendere, iniziative da prendere. Quattro Giri d’Italia, tutti e quattro finiti. Il giorno più bello al Giro del 1979, sesta tappa, la Vieste-Chieti, 260 chilometri, fuga a due con lo svizzero Bruno Wolfer, avevamo un tale vantaggio che da maglia nera reale ero diventato maglia rosa virtuale, nel finale in salita mi spensi, primo Wolfer, secondo io, terzo Saronni, niente vittoria e niente maglia rosa. Il giorno più amaro alla Milano-Sanremo del 1980, fuga a tre con Tullio Bertacco e il belga De Beule gregario di Roger De Vlaeminck, al rifornimento il massaggiatore di Bertacco gli allungò il sacchetto, il sacchetto gli entrò nella ruota, cadde lui e caddi io, De Baele no e proseguì, eravamo sul Berta, risalii in bici, fui ripreso a Imperia, arrivai a Sanremo ma passando sotto il Poggio. Il giorno più duro al Giro d’Italia del 1980, la tappa dello Stelvio, primo Bernaudeau, cui Bernard Hinault lasciò la vittoria, Hinault maglia rosa, io a mezz’ora, ancora l’incubo di quei tornanti da Trafoi, la prima e l’ultima volta in cui in vita mia ho fatto lo Stelvio”.

 

Eppure…

“Giro d’Italia del 1979, Gran premio Fiat Ritmo, a tot chilometri c’era un traguardo volante intermedio, una classifica a punti, il primo avrebbe ottenuto una Ritmo. E dai e dai e dai, la vinsi io. Nera. Da un concessionario di Brescia. La feci valutare, divisi il valore per dieci, nove compagni più una quota destinata a meccanici e massaggiatori, insomma mi tassai e la ricomprai. Tutti i premi venivano equamente divisi”.

 

In quel Giro d’Italia fu penultimo.

“L’ultimo Giro in cui l’ultimo in classifica correva con la maglia nera. Non solo: godeva anche di una piccola diaria, insomma un premio in denaro, e anche di una certa popolarità perché sulla strada tutti ti vedevano e al traguardo De Zan ti intervistava. Ero in lizza con il mio compagno di squadra Bruno Zanoni, ma lui alla maglia nera teneva tantissimo, e anche lì c’erano gerarchie da rispettare. Arrivammo ultimo lui e penultimo io, lui a tre ore da Saronni, io dieci minuti in meno”.

 

Poi c’erano i circuiti?

“Il boss era Nino Recalcati, era lui a invitare i corridori, bisognava entrare nella sua manica. L’importante era lasciar vincere chi doveva vincere, poi tanto si dividevano i premi. Gli unici che lasciavano anche la loro quota dei premi erano Merckx e De Vlaeminck, due signor corridori, ma anche due signor gentiluomini”.

 

Rimpianti?

“Roberto Visentini mi chiese di passare con lui alla San Giacomo, io ero poco sveglio, non presi la palla al balzo, persi l’occasione e anche il posto, quella stagione chiusero tre squadre e 30 corridori italiani rimasero a spasso. Insomma, ho faticato ma mi sono abbastanza divertito, ho girato il mondo, anche se allora il mondo del ciclismo era Italia, Francia, Svizzera e Belgio, andai anche in Olanda e Canada. La verità è che a 20 anni va tutto bene”.

 

Poi?

“Fabbro carpentiere. Un lavoro che facevo prima, durante e dopo le corse. E sempre la coscienza a posto. Andavo a pane e acqua, che significava riso in bianco, bistecca ai ferri e tartine con marmellata. Se ti prendevano positivo all’antidoping, la multa in franchi svizzeri era l’equivalente di 500mila lire. E siccome io prendevo uno stipendio di 400mila lire al mese, i conti erano presto fatti. Gli aiuti – come si diceva allora - non me li potevo proprio permettere”.

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