
Girandole #4
Il talento senza testa di Mario Nicoletti
Il trentino poteva diventare un fenomeno del ciclismo, ma "non avevo voglia. Gli altri si allenavano, io no. Gli altri uscivano, io mi imboscavo"
Le più belle gambe del ciclismo italiano? Terzo posto a Marzio Bruseghin da Vittorio Veneto, gregario (ma anche campione italiano a cronometro) anni Duemila. Secondo posto a Meo Venturelli, modenese dalla frazione La Borra di Sassostorno di Lama Mocogno, meteora anni Sessanta. Primo posto a Mario Nicoletti, trentino di Levico Terme, fenomeno tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma non sempre le gambe corrispondono a testa e cuore, a fame e fuoco, a talento e voglia. Nicoletti – lo dice lui - non aveva voglia. Non molta, non abbastanza. Anzi, poca, quasi niente.
Nicoletti, perché cominciò a correre?
“Per sfuggire alla fame. Papà elettricista e falegname, mamma a casa, una sorella maggiore e un fratello minore, non avevamo i soldi per mangiare, figurarsi per prendere la corriera, si andava piedi o di corsa. Le elementari, poi il lavoro. Tipografo, idraulico, ascensorista, di tutto. La prima bici non era mia, me la prestarono, ci salii, imparai, partecipai a una corsa all’oratorio, vinsi. La seconda bici acquistata in cambio di una moto scassata di mio padre. La prima corsa per l’Aurora di Trento, senza braghette, con le scarpe della festa, non sapevo nulla, finii fra i primi cinque. La prima vittoria, da allievo, sul Lungo Adige. Forse mi illusi che fosse tutto facile”.
Non lo era?
“Militare nella Compagnia atleti a Roma, alla Cecchignola, c’erano anche Enrico Paolini, Wladimiro Panizza e Flavio Martini. Non so neppure come venni selezionato, forse non c’erano altri corridori trentini. Comunque quello fu il periodo più bello della mia vita, mai trovato così bene: c’era da mangiare, c’era da bere, c’era soprattutto da girare e scoprire il mondo. In treno, in nave, in aereo. Mi feci perfino il passaporto. Spesato e, poco, anche pagato. Quasi quasi ci avrei messo la firma. Ma non avevo voglia di correre. Gli altri si allenavano, io no. Gli altri uscivano, io mi imboscavo. A Ostia, a Fregene, all’Eur. Più mi chiedevano di allenarmi, più mi passava la voglia. Il commissario tecnico dei dilettanti, Elio Rimedio, mi vide alle premondiali e mi volle ai Mondiali a cronometro. Ci preparavamo correndo nella Germania dell’est. Rimedio mi obbligava, finite le tappe, a fare altri 50 chilometri. Ti devi allenare più degli altri, mi ordinava. Non ero d’accordo e tornai a casa”.
Eppure continuò a correre e vincere.
“Dilettante, nel 1968 alla Mainetti, conquistai la Rovereto-Pasubio e la Astico-Brenta, una classica, nel 1969 alla Padovani, Severino Rigoni vedeva in me chissà che campione, e campione italiano mi laureai nella 100 chilometri a squadre, vinsi anche il Trofeo Val di Sole e il Giro del Lazio, nel 1970 passai professionista nella Ferretti, i quattro fratelli svedesi Pettersson in squadra, Alfredo Martini in ammiraglia, Martini era un santo, non l’ho mai sentito parlare male di qualcuno, e con me aveva una pazienza infinita, mi trattava come se fossi un vero corridore. Invece non avevo voglia. E pensare che alla prima corsa vinsi. Tirreno-Adriatico, quarta tappa, la Pineto-Civitanova Marche”.
Come andò?
“Caduto Gosta Pettersson, fui libero di fare la mia corsa. Allungai per vincere un traguardo volante, pioveva, insistetti, 229 chilometri di corsa, 191 di fuga solitaria, raffiche di vento contrario, nel finale rallentai per non mandare i corridori, anche i miei compagni, fuori tempo massimo. Secondo arrivò il belga Walter Godefroot. Al Giro del Belgio fui secondo nel cronoprologo. Alla Bernocchi sesto. Mi bastava. Non avevo più voglia. E smisi di correre. Ogni anno smettevo di correre per cominciare a lavorare. Poi ricominciavo a correre. Alla fine del 1970 Aldo Moser mi volle nella Gbc. Gregario. Anche al Giro d’Italia, quello del 1971. Cronoprologo a squadre, alla settima tappa, la Orvieto-San Vincenzo, non avevo più voglia, avevo già deciso di fermarmi, mi ritirai in pianura, la decisione più sensata della mia vita”.
Invece?
“Guido Costa, il commissario tecnico dell’Italia della pista, mi chiamò per partecipare ai campionati italiani dell’inseguimento. Albergo pagato. Contro Lorenzo Bosisio, uno specialista, mi proposero di perdere in cambio di soldi. Non ce n’era bisogno, avrei perso comunque, e non accettai. Partii in testa, ero senza allenamento e infatti scoppiai. Smisi di correre. Poi ricominciai. E alla fine del 1971 rimasi alla Gbc. Gregario. Anche alla Vuelta, quella del 1972. Cronoprologo, poi fuori tempo massimo alla prima tappa. L’ultima corsa fu il Giro di Lombardia. Ne feci metà, l’arrivo lo guardai alla tv. E stavolta mi ritirai veramente. E di questa decisione non mi sono mai pentito. Ero così convinto che vendetti la bicicletta Trento, conservai qualche coppa, i ritagli di giornali fatti da mia madre e un dorsale, il numero 26 che indossai, poco, pochissimo, alla Vuelta, da qualche parte a casa dovrebbe esserci ancora”.
C’è ancora chi sostiene che sarebbe potuto diventare forte come Merckx.
“Ci corsi insieme, ma lontano, non osavo neanche mettermi alla sua ruota. In comune solo l’anno di nascita, il 1945, andiamo verso gli 80. La verità è che da corridore non avevo voglia, non avevo passione, non avevo paga. Mi creda, ho avuto più soddisfazione da idraulico che da corridore”.