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Cent'anni di Alfredo Martini

Gino Cervi

Un secolo fa nasceva a Firenze il Commissario tecnico più vincente della storia del ciclismo italiano. Viaggio tra i suoi silenzi

Cento anni fa, il 18 febbraio 1921, al reparto maternità dell’Ospedale di Santa Maria Nova, a Firenze, nasceva Alfredo Martini. In quegli anni i figli venivano al mondo in casa, quasi mai all’ospedale. La mamma di Alfredo, Regina, aveva quarantadue anni e si temeva che il suo fosse un parto difficile. Tutto fortunatamente andò bene. Ma il fatto che quel bambino sia nato in ospedale è forse di per sé un segno: Alfredo Martini sarà un uomo eccezionale.

 

Non sono molti gli uomini di sport che possono vantare di essere ricordati non soltanto per le loro imprese sportive. Martini appartiene a questa sparuta schiera. Per settant’anni ha incarnato il ciclismo, anzi, il mestiere del ciclismo. Negli anni d’oro della bicicletta ha pedalato a fianco dei più grandi campioni: prima con la maglia della Wilier-Triestina (1948) e poi con quella della Nivea-Fuchs (1955) accompagnò l’amico Fiorenzo Magni a conquistare due Giri d’Italia; nel 1949 e nel 1952 fece parte della selezione azzurra che scortò Fausto Coppi nelle due vittorie al Tour de France. Pochi i successi individuali: un Giro dell’Appennino (1947), un Giro del Piemonte (1950), una tappa al Giro del 1950, con arrivo nella “sua” Firenze, e una tappa al Giro di Svizzera (1951). Martini era però un uomo-squadra, un sagace e autorevole luogotenente in corsa.

   

Doti che mise a frutto quando, appesa la bici al chiodo e salito sull’ammiraglia, passò a fare il direttore sportivo. In quattro anni alla Ferretti (1969-72) e due alla Sammontana (1973-74) portò al successo lo svedese Gösta Petterson al Giro d’Italia del 1971 e numerosi altri corridori: da Van Vlierberghe a Farisato, da Francioni a Simonetti, da Bitossi a Poggiali, da Fabbri a Perletto.

  

Poi, dal 1975 al 1997 la lunga stagione alla guida della Nazionale azzurra: Alfredo Martini è stato il Commissario tecnico più vincente della storia del ciclismo italiano. Sotto la sua regia sono saliti sul podio più alto dei Campionati del mondo su strada Francesco Moser (1977) e Beppe Saronni (1982), Moreno Argentin (1985) e Maurizio Fondriest (1988) e per due volte (1991 e 1992) Gianni Bugno. Numerosi i piazzamenti: 7 medaglie d’argento e 7 di bronzo.

   

Lasciato l’incarico, ha svolto, con discrezione, la funzione di consigliere di un suo successore, Franco Ballerini, amato come un figlio, grazie al quale l’Italia, tra il 2001 e il 2008, vinse altri 4 Mondiali (Cipollini, due volte Bettini e Ballan) e un’Olimpiade (ancora Bettini).

  

Fin qui il palmarès sportivo. Ma non basterebbero tutti questi successi a giustificare l’unanime riconoscimento di gratitudine che il mondo allargato del ciclismo, dagli addetti ai lavori ai semplici tifosi e appassionati, deve alla memoria di Alfredo.

  

Martini è stato un maestro. Un maestro naturale. Non ne interpretava il ruolo. Lo era e basta. Apparteneva a quella generazione di italiani che ha vissuto in prima persona l’orrore della guerra e la speranza, realizzata, della rinascita. Con passione fece del proprio sport un mestiere e vi trasferì i valori fondativi del lavoro e della solidarietà, dell’onestà e della lealtà in cui era stato cresciuto.

  

Da Calenzano, il paese d’origine, la famiglia Martini si era trasferita nella vicina Sesto Fiorentino. Il padre, Fortunato, detto Pietro, era operaio fuochista alla Richard Ginori, la storica fabbrica di porcellane. Per il figlio Alfredo sperava in un lavoro e in un futuro diverso: Alfredo andava bene a scuola ma non c’erano i soldi per potergli mantenere gli studi. Fu così che dopo due anni di apprendista alle Officine meccaniche del Pignone, Martini che aveva scoperto di andare forte in bicicletta – Sesto e dintorni era un vivaio di ciclisti – a sedici anni scelse di fare il corridore ciclista.

  

Ma non si dimenticò da dove era partito, da quel mondo in cui il mestiere lo scrupolo, la precisione, l’abilità manuale era un’arte sapiente che veniva da molto lontano. Quando, dopo con le prime vittorie negli allievi e poi nei dilettanti guadagnò la bellezza di 1.800 lire, molto più di quello che guadagnava su padre rischiando la pelle nei forni della Richard Ginori, gli sembrò quasi un insulto. Ma fu quello il momento in cui capì che il corridore poteva diventare un lavoro vero.

   

Non smise mai però di coltivare, in modo curioso e spontaneo, la passione per la cultura, la politica e le relazioni umane. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo da vicino, è stato affascinato dal suo umanesimo autentico, quasi che azione, pensiero, parola ed eleganza di modi sgorgassero da una fonte naturale antica di secoli e di storia. Una lucidità di espressione e una nobiltà di sentimenti che si trovano raramente nel mondo dello sport tanto da spiccare come un faro, e come tale essere ricercato, ammirato e ringraziato anche da chi è poco educato alle parole e allo spirito.

  

Parole e spirito che pervadono la sua autobiografia, La vita è una ruota. Storie resistenti di uomini, donne e biciclette, scritta con perfetta sintonia di immagini e di cuore con Marco Pastonesi, e pubblicata da Ediciclo Editore pochi mesi prima di morire, nel 2013. Otto anni dopo, per tornare a dire grazie ad Alfredo Martini, nel centenario della sua nascita, è uscito (sempre per Ediciclo Editore) un altro prezioso libretto: I silenzi di Alfredo Martini.  Lo ha scritto Franco Quercioli, scrittore fiorentino e da anni cultore della materia ciclistica nello stesso modo umanistico in cui la interpretava Martini. Quercioli, rievocando alcuni incontri avuti negli ultimi anni della vita di Alfredo, ha scelto di raccontarne i silenzi.

 

In quelle conversazioni Martini esercitava l’arte dell’ascolto:

"Il suo era un ascolto intenso, quasi che a volte anticipasse il mio pensiero, per cui le parole mi venivano facili e appropriate. Il suo era un silenzio particolare, un silenzio attivo, una capacità che solo i grandi maestri hanno di fare uscire il meglio che abbiamo dentro di noi".

 

Perché così come nelle partiture musicali le note prendono corpo e suono anche dai silenzi che le precedono o le seguono, anche le parole di Martini traevano forza e intensità dai suoi silenzi, o a volte erano addirittura i suoi silenzi a “parlare”. Nelle brevi pagine del suo libretto, Quercioli segue il filo dei pensieri e delle rare parole del vecchio Martini e ne ricompone le storie di amicizia con Fiorenzo Magni – un’amicizia più profonda e duratura di scelte e destini diversi – e con Fausto Coppi; il legame paterno con Franco Ballerini e il grandissimo dolore per la sua scomparso tragica scomparsa nel 2010.

 

Quando il linguaggio universale dello sport ha la fortuna di trovare una voce, un’intelligenza e una sensibilità culturale come quella di Alfredo Martini allora diventa più potente di qualsiasi manifesto pedagogico. La sua lunga vita è stata un insegnamento. E cento anni dopo è necessario ricordarne gesti, parole e anche silenzi.

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