
Il quartetto azzurro della cento chilometri alle Olimpiadi del 1964: Ferruccio Manza, Severino Andreoli, Luciano Dalla Bona e Pietro Guerra (foto Getty Images)
Girandole #3
I due Giri d'Italia di Luciano Dalla Bona
"I capitani si attaccavano, i gregari spingevano. I capitani chiedevano acqua, i gregari portavano borracce". La dura vita del gregario raccontata da chi aiutò Gimondi a vincere il Giro dopo essere stato campione mondiale (ori 1964 e 1965) e quasi olimpico (argento 1964 a Tokyo) nel quartetto della cento chilometri
Da campione a gregario, da gregario a capitano. Campione mondiale (ori 1964 e 1965) e quasi olimpico (argento 1964 a Tokyo) nel quartetto della cento chilometri, gregario nella Salvarani dal 1967 al 1970, capitano di un’azienda di abbigliamento intimo (la FDB, Fratelli Dalla Bona). Luciano Dalla Bona, 81 anni (compresi due Giri) da raccontare.
Giro d’Italia del 1968, diciannovesima tappa, la Abbadia San Salvatore-Roma, pronti, via?
“Pedalavo in mezzo al gruppo, più dietro che davanti. Mi si affiancò Luciano Pezzi, il direttore sportivo della Salvarani, sull’ammiraglia. Che fai qui?, mi domandò. Va’ avanti, mi ordinò. In fuga, mi incoraggiò. Andai avanti. Poi andai via. Con altri tre, un italiano, Milioli, e due spagnoli, Ocana e Garcia. Centotrenta chilometri di fuga. Si arrivava all’Eur. Ce la giocammo in volata. Vinsi davanti a Ocana”.
Che felicità.
“Io sì, Pezzi meno. Preferiva un secondo o terzo posto di Gimondi al primo mio o di altri gregari, forse faceva più notizia, forse guadagnava più colonne nei titoli e negli articoli, più spazio in tv e più tempo alla radio. E pensare che dormivo in camera proprio con Gimondi. Avevamo corso insieme al Tour de l’Avenir del 1964, io vinsi una tappa, in fuga con altri quattro, fra cui un altro italiano, Campagnari, al primo scatto vennero a prendermi, al secondo no, Gimondi vinse due tappe e la classifica finale, poi tutti e due all’Olimpiade di Tokyo del 1964, io nel quartetto, lui nell’individuale”.
Passista, cronoman, finisseur?
“Cominciai a casa per caso. A Pressana, nella bassa veronese, si cercavano giovani per una corsa in paese. La gente, l’entusiasmo, la novità, scattai all’ultimo chilometro, saltai per aria, arrivai sesto. La prima vittoria sarebbe giunta proprio a Pressana, scattai a tre chilometri dall’arrivo e stavolta resistetti fino in fondo. Me la cavavo anche in volata. Una volta da dilettante a Vimercate battei Motta”.
Da gregario?
“I capitani si attaccavano, i gregari spingevano. I capitani chiedevano acqua, i gregari portavano borracce. Ma siccome il rifornimento era uno solo, inizio e fine, poi basta, neanche dalle ammiraglie, e la sete – soprattutto al Tour – inestinguibile, bisognava arrangiarsi con gli spettatori, fermarsi alle fontane e assaltare i bar. Certe volte si rubava al buio. Come quella volta in una locanda nella campagna francese, le persiane socchiuse, il frigo nella penombra, arraffai una bottiglia di vetro gelata convinto che fosse acqua, dall’etichetta capii che era cognac, ma ormai era fatta, automaticamente me la ficcai nella tasca dietro sulla maglia. Era il Tour del 1967, a squadre nazionali. Vedi quello?, mi disse Tom Simpson, indicandomi una specie di vulcano con la cima che sembrava innevata. Era il Mont Ventoux. A una trentina di chilometri di distanza. Incuteva timore, anzi, faceva paura. Poi Simpson mi indicò la bottiglia e mi chiese da bere. Il gruppo era una famiglia allargata, ci si aiutava anche fra squadre diverse. E’ cognac, lo avvertii. Lui lo volle comunque, il caldo era insopportabile, la sete bestiale, il consumo immediato, così riempì di cognac la borraccia, mi restituì la bottiglia e bevve dalla borraccia. E io, alla prima occasione, consegnai la bottiglia a Pezzi, non si buttava via nulla, tantomeno il vetro. Poi accadde quello che accadde. Primo Janssen, secondo Gimondi, ottantaduesimo io a quasi 17 minuti, e Simpson, si dice per la fatica, per la disidratazione, per la temperatura, per l’insolazione, forse per gli eccitanti e forse anche per il cognac – credo che sia ancora un mistero -, morto strada facendo. Da quel giorno e da quella tragedia fu istituito il controllo antidoping”.
Poi venne Merckx?
“Correva solo per vincere. Tutto, sempre, dovunque. Non si accontentava, non faceva fatica, almeno così ci sembrava. Un fenomeno, come Pelè o Maradona nel calcio, come Coppi prima e Pogacar adesso nel ciclismo. Uno così nasce ogni 50 anni. Tour de France 1969, tappa su e giù, gruppo agitatissimo, tuti volevano andare in fuga, uno sparpaglio generale, Merckx si mise davanti, da solo, il gruppo in fila indiana, poi frazionato in una quindicina di ventagli, nessuno si azzardò più a muoversi, tutti concentrati soltanto a sopravvivere. Gimondi pregava gli altri di non attaccare Merckx, mi fate arrabbiare il mostro, spiegava”.
Funzionava?
“Non sempre. Parigi-Lussemburgo del 1969, in due tappe. La prima fu un trionfo, primo Gimondi, secondo Zandegù, Merckx quarto e De Vlaeminck quinto a quasi un minuto. La seconda mi infilai dentro una fuga, il gruppo si disinteressò di noi, il vantaggio cresceva a vista d’occhio, avevamo otto minuti e io potevo vincere tappa e corsa, ma Pezzi voleva che a vincere fosse Gimondi e fece tirare la squadra per venirci a riprendere. Risultato: sulla salitella finale Merckx scattò, conquistò tappa e corsa, e Gimondi secondo”.
Ce ne racconta un’altra?
“Giro di Sardegna del 1967. Tappa nel Gennargentu. Vento, pioggia, pioggia mista a neve, neve. Zandegù, intirizzito, congelato, demoralizzato, voleva ritirarsi. Pezzi mi comandò: stagli vicino. Poi si raccomandò: che non si ritiri. Così rimasi accanto a Zandegù e lo portai in salvo”.
Dalla Bona, lei smise di correre a 27 anni, perché?
“Seguii il consiglio di Renato Giusti, anche lui veronese, anche lui corridore e poi imprenditore nella maglieria, colsi l’occasione per lavorare nell’abbigliamento e feci bene. Ora l’attività prosegue con i miei figli. Ma il ciclismo l’ho sempre seguito e incoraggiato, anche con una squadra giovanile, 30-40 tesserati fra giovanissimi ed esordienti, vado alle corse, andrò anche al Giro. Tanto più che passerà a 300 metri da casa mia. L’ho preso come un grande privilegio. E come un gentile omaggio”.

Il Foglio sportivo