
Eugert Zhupa al Giro d'Italia 2016 (foto LaPresse)
Girandole
C'era un albanese al Giro d'Italia. Eugert Zhupa racconta i suoi Giri
L'unico corridore albanese ad aver partecipato e concluso la corsa rosa non è stato invitato alla partenza dell'edizione 2025 da Durazzo
Eugert Zhupa, il primo e unico corridore albanese che abbia mai partecipato e finito il Giro d’Italia, non è stato invitato alla partenza del Giro in Albania. Non da autorità e istituzioni albanesi. E lui ci è rimasto – è comprensibile – malissimo. Per sua fortuna ci hanno pensato gli italiani di Ultimo Uomo con l'Istituto italiano di cultura, organizzando un incontro all’Università di Tirana. Una lezione magistrale di ciclismo, dunque di vita.
Zhupa, com’era nata la sua passione?
“Avevo tre anni quando ricevetti una biciclettina in regalo. L’unica del mio paese, Rrogozhine, una quarantina di chilometri da Durazzo e una settantina da Tirana. Quella biciclettina divenne l’oggetto del desiderio di tutti i bambini, un tappeto volante, un cavallo alato, un superpotere magico. A cinque-sei anni mi trasferii con la famiglia in Italia, in Emilia, a Rubiera. In Albania la caduta del comunismo, in Italia la scuola, fino alla quinta superiore abbandonata prima di diplomarmi, poi il lavoro, a Maranello alla Ferrari, e intanto il ciclismo. La prima corsa al secondo anno da esordiente vicino a Parma, non sapevo neanche che cosa fosse e come funzionasse il cambio, comunque arrivai al traguardo. La prima vittoria da allievo vicino a Piacenza, faceva un caldo tremendo, andai in fuga e ci rimasi dall’inizio alla fine resistendo al gruppo che mi inseguiva. Le condizioni che mi avrebbero sempre accompagnato: da una parte il tempo, il gran caldo, ma anche il gran freddo, non mi avrebbe mai spaventato, dall’altra il carattere, provarci attaccare combattere lottare, una necessità ma anche un piacere”.
Lei è rimasto albanese, perché?
“Doppia cittadinanza, albanese e italiana. Perché per il ciclismo albanese ho sempre voluto essere un punto di riferimento, esempio modello luce faro, e invece niente, non sono mai stato cercato, mai stato sfruttato, mai abbastanza, avrei potuto aiutare e consigliare e proporre, e invece niente, neanche stavolta, unica e storica, sono stato calcolato e coinvolto. E pensare che tornavo per disputare i campionati nazionali, sei titoli a cronometro e quattro in linea, il Giro d’Albania a tappe, una vittoria finale, e la Balkan Elite Road Classic in linea, una vittoria. Il mio obiettivo era indicare ai ragazzi che c’era anche la via dello sport, toglierli dalle cattive strade e dalle brutte compagnie e introdurli sulle strade del ciclismo e la compagnia del gruppo. Lo sport, e il ciclismo in particolare, disciplina, regola, educa”.
Quattro Giri d’Italia, dal 2015 al 2018, nessuna vittoria ottenuta, ma quante sfiorate?
“Giro d’Italia del 2017, la tappa di Reggio Emilia, la mia terra e le mie strade, la mia gente, l’entusiasmo, ci provai e attaccai, da solo in testa dall’ultimo chilometro fino ai 300 metri furono 700 metri di speranza sciolta in illusione, eccitazione spenta in rassegnazione, se solo avessero sbagliato un cambio, se solo avessero temporeggiato nella tattica, avrei vinto io e la mia vita sarebbe cambiata. Giro d’Italia del 2016, la tappa di Roccaraso, via in fuga, quando la fuga si sbriciolò e davanti rimase Wellens da solo, sarei stato felice anche del secondo posto, invece Nibali fece fuoco e fiamme, mi prese all’ultimo chilometro, finii inghiottito dal gruppo”.
Viva la fuga?
“Mi chiamavano ‘Zuppone’, a volte più affettuosamente ‘l’aquilotto albanese’. Grande e grosso, fisico più da rugbista che da corridore, sempre con qualche chilo in più del dovuto, per emergere dovevo scappare. A costo di prendermi qualche cotta e precipitare in qualche crisi. Giro d’Italia del 2017, in programma il Mortirolo e due volte lo Stelvio, le prime dure ore a una media di 56 all’ora, la fuga in cinque o sei, la seconda volta sullo Stelvio, quella dal versante svizzero, ero così stanco, così morto, che mi misi a piangere. E piangendo arrivai al traguardo, centotredicesimo a quasi 20 minuti, ma ci arrivai. Gand-Wevelgem del 2015, le Fiandre il paradiso del ciclismo, dal bus al palco fra la folla, scosso dai brividi, una passione e un affetto stratosferici, non avevo esperienza e comunque attaccai, poi davanti con il primo gruppo, vento forte, tutti a terra, io mi salvai, primo Paolini, io ventitreesimo. Quando sei in fuga, ti senti pieno e carico, di energie ed emozioni, e quando il gruppo ti riprende, ti senti vuoto e demolito, fisicamente e mentalmente. Ma con la coscienza a posto: ci hai provato”.
Adesso?
“Operaio alla Panaria Ceramica, che per anni ha sponsorizzato una squadra di ciclismo, ma credo che i miei dirigenti neppure sappiano che sono stato professionista. Intanto lavoro anche come selezionatore tecnico dell’Emilia Romagna per le squadre giovanili. Così riassaporo clima e atmosfera delle corse, cioè quel mondo fatto di speranze. Sapendo che, almeno una, si avvera sempre”.