Tim Wellens dopo l'arrivo di Roccaraso. Prima vittoria per lui in una grande corsa a tappe.

Wellens vince a Roccaraso, Dumoulin stacca tutti. Prima fuga a segno al Giro

Giovanni Battistuzzi

Il giovane belga conquista il primo arrivo in salita dopo una fuga di 80 chilometri, gli ultimi 15 da solo. Nibali prova a staccare i rivali, ma paga lo sforzo. La maglia rosa contrattacca e guadagna altri venti secondi sui primi. Abecedario della corsa: F come fuga, F come Foligno (e tutti gli amori di Beppe Conti).

Sesta tappa, Ponte-Roccaraso (arrivo in salita), 157 chilometri – Ecco la salita, ecco la fuga che arriva. E’ Tim Wellens a far suo il traguardo di Roccaraso, nome d’antonomasia, scenico, perché il traguardo tre chilometri più in su, ad Aremogna. Ma tant’è, visto che è il paese abruzzese a richiamare le gesta di Hinault, Merckx, Argentin e Girardengo. Il giovane belga è per molti il futuro del ciclismo, ha classe e cattiveria, ha forza e voglia di imporsi. Sinora aveva sempre sbagliato il momento per scattare, ha trovato quello giusto oggi, ai quindici dall’arrivo: allungo secco, nessuno è riuscito a rispondergli. Il resto è quattordicimilasettecento metri di solitudine, trecento di esultanze, pugni ruotati in aria, braccia alzate, baci al pubblico, cuoricini disegnati con le dita. Poi scende di sella, solleva la bici, la alza sopra la testa.

 



 

Dietro a lui il gruppo. Dietro di lui Jakob Fulgsang e Costantin Siutsou si avvantaggiano, i candidati alla vittoria finale si guardano, si scrutano, danno fondo alla resistenza dei compagni di squadra, poi provano a testare le resistenze altrui e le proprie. Vincenzo Nibali è il primo a provare a staccare tutti. L’allungo del siciliano è violento, perentoria però la resa. Una fiammata ripresa dal Team Sky del rivale per la classifica, Mikel Landa, annullata dallo scatto della maglia rosa. Tom Dumoulin fa il vuoto, si porta con se Domenico Pozzovivo e Ilnur Zakarin e rifila altri venti secondi a tutti i suoi rivali. Chapeau.

 

All’inizio erano in tre: Alexander Kolobnev, Alessandro Bisolti e Alexander Zhupa. Via dopo 20 chilometri a far corsa di testa. La loro è corsa compatta su verso la prima lunga ascesa della corsa rosa, Bocca della Selva, 1.393 metri. Ritornati a valle rimangono in due: il russo si rialza, rientra in gruppo. Gli altri due continuano, non si preoccupano della solitudine, riaccelerano. A dar loro man forte ci pensano Wellens, Ligthart e Diedier. Cinque contro tutti. Sembra missione impossibile, ma qualche volta

 

 


Abecedario fisso – L'altro Giro di Maurizio Milani

 

F come FOLIGNO – La città più bella d’Europa (capitale della cultura l’anno scorso), con la barista del bar in piazza così fantastica che vengono anche da 200 chilometri per far colazione da lei. Il suo è un bar che apre alle 4 di mattina e chiude alle 13.30. I suoi croissant sono quelli più buoni che si possano trovare nelle pasticcerie dell’area Ocse. Vende anche integratori per sportivi per cui dopo 10 capuccini ti omaggia di un barattolo da due chili di proteine (equivalgono a 160 mila uova). Tanti amatori del ciclismo si trovano al suo bar e poi partono senza meta. Vince chi è l’ultimo a stancarsi. Di solito sono uomini di una certa età convinti che se fanno così Paola la barista si innamora. Illusi. Lei è da sempre innamorata di Beppe Conti.

 


 

F come FUGA – E’ esplorazione, avanguardia. E’ molto spesso un tentativo destinato a fallire, pura spericolatezza. Qualche volta si trasforma in successo, sorpresa. Perché chi è partito al mattino è difficile che regga per tutta la corsa e arrivi in testa il pomeriggio. E’ la preda che fugge al cacciatore. Perché andare in fuga è missione impari: in pochi contro molti, da soli a faticare contro il vento, mentre dietro ci si nasconde alle spalle dei gregari. A volte è un’impresa. Fausto Coppi nella Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949, quei 192 chilometri da solo in testa, “un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome Fausto Coppi”, così almeno iniziò la sua radiocronaca il giornalista Mario Ferretti. A volte è beffa, bidone. Carlo Clerici nella Napoli-L’Aquila del 1954. Lo svizzero a quel Giro doveva essere gregario di Hugo Koblet. Durante quella sesta tappa però, il gruppo si dimenticò degli avanguardisti, continuò a litigare di premi in denaro e sicurezza in corsa e lasciò loro oltre mezzora di vantaggio. Clerici da svizzero sconosciuto divenne prima maglia rosa, poi vincitore del Giro. David Arroyo rischiò di emularlo 56 anni dopo, sempre a l’Aquila. I migliori gli abbuonarono una dozzina di minuti. Lui ringraziò e non mollò sino all’ultimo metro. Terminò secondo dietro a Ivan Basso.