Eusebio Di Francesco (Ansa)

Crocicchi #38

In questa Serie A hanno vinto tutti. Pure il Frosinone

Enrico Veronese

La sfortunata squadra di Di Francesco è retrocessa, ma ha divertito con il suo calcio. Dall'Inter campione al sogno del Bologna, passando per Juve e Atalanta e Roma, alla fine di questa stagione tante squadre hanno buoni motivi per essere soddisfatti

Hanno vinto tutti. L’Inter lo scudetto, l’Atalanta l’Europa League, la Juventus la Coppa Italia, il Bologna si è regalato un sogno, la Roma ha ritrovato identità, la Fiorentina attende la finale di Atene -seconda consecutiva in due anni- e con lei il Torino, mentre Udinese ed Empoli si sono salvate all’ultima giornata. Ha vinto anche il Frosinone del bel gioco, perché la Serie B oggi è competitiva e ha ridotto le distanze dalla A: non meritava di finirci, ci riproverà. E pure il Napoli, ha vinto la possibilità di rifondarsi senza sperare che i bagliori dell’anno prima fossero eterni. Hanno vinto tutti, ma quasi nessuno folleggia per un goal all’ultima giornata: vero Houssem Aouar?

Domenica, si fa per dire, di maglie incorniciate e lacrime: Olivier Giroud, Simon Kjær, Alex Sandro, Felipe Anderson. I lampi, all’infrasettimana: la prestazione dell’Atalanta a Dublino (prima ancora dei tre goal di Ademola Lookman) rimarrà negli occhi per tanto tempo, illustrando alle persone più giovani cosa voleva dire assistere a un incontro decisivo dell’Italia 1982 o del Milan di Arrigo Sacchi. A un certo punto, contro il Bayer Leverkusen, subentrava il sentimentalismo: “Fai entrare Tolói”, l’invocazione a Gian Piero Gasperini, accolta a un minuto dalla fine per far partecipare anche chi in questa storia c’è stato dall’inizio.

E così, nel fine settimana, un po’ tutte hanno preso a giocare come Lookman, Gianluca Scamacca e Charles de Ketelaere assieme, ala destra e non trequartista: in primis gli originali, noncuranti degli appelli giallorossi alla desistenza. Poi le altre: il Milan scopre il tiqui-taca a fisarmonica, c’è chi conclude col 4-2-4 del primo Brasile iridato. Forse perché ormai è chiaro che non ha senso difendersi a oltranza, quanto vale invece gettarsi a segnare un goal in più: è uno sport che dalla playstation mutua atteggiamenti, schemi, colpi individuali e a sua volta li restituisce alla prossima versione del gioco, con Jeremie Frimpong centravanti occulto di una squadra che fin lì mai aveva perso, o il 3-2-4-1 di braccetti che si allargano e mediani che retrocedono in mezzo alla difesa.

Eppure, tra tanto sfavillare, gli scettici hanno ragione a dire che venti squadre per questa Serie A sono fin troppe, e le sedici degli anni Ottanta renderebbero meglio l’idea che a meritare la B fossero altrettante compagini rispetto a quelle effettivamente discese. Anche tra le pieghe dell’oro si nascondono le storie dei dimenticati, marginalizzati, sperati fin che si poteva e poi più: Jesper Karlsson, Arijon Ibrahimović, desaparecidos di alta e di bassa classifica, buoni a far sospirare per la stagione vacante, gusti del mese, chiusi negli spiccioli di recupero.

Per farcela occorre pescare il jolly: come l’Empoli, che alle ore 17 del 31 gennaio -ultimo giorno di mercato invernale- siglava l’ingaggio di M’Baye Niang, già deficitario al Milan, al Torino e (meno) al Genoa. Fin lì, l’attacco dei toscani si era barcamenato tra gli acciacchi di Francesco Caputo, l’eterna speranza di Alberto Cerri, i lampi sempre più rari a firma Mattia Destro, con il complemento saltuario di Nicolò Cambiaghi, Matteo Cancellieri ed Emmanuel Gyasi. La cessione alla Roma di Tommaso Baldanzi, l’unico campioncino presente in rosa, apriva prospettive fosche dalle parti dello stadio Castellani.

Giusto una scommessa (in senso buono!) poteva ribaltare la situazione: e i tre rigori dell’attaccante senegalese, finora nella memoria soprattutto per un clamoroso palo a Barcelona in Champions League, hanno fruttato inizialmente sette preziosissimi punti. Poi di nuovo il ballottaggio, i mozziconi, i risultati che non arrivano, il calendario poco soccorrevole. Il 6 aprile, tuttavia, è ancora l’ex Rennes a risolverla al 94° contro il Torino, confermando un rapporto strabiliante tra goal segnati e punti conseguiti in questa avventura empolese di primavera.

M’Baye ricompare nelle ultime due giornate, dapprima trasformando il rigore dell’illusione a Udine, poi trovandosi pronto a calciare verso la porta di Mile Svilar l’assist dello stesso Cancellieri oltre il 90°, piena zona Niang. Oggi la società del presidente Fabrizio Corsi sa che iniziò a salvarsi proprio agli sgoccioli dei trasferimenti, senza alcuna certezza del fatto che richiamare l’ex Milan fosse la mossa giusta da fare. Perché il calcio irrazionale e poco meritocratico degli ultimi anni è fatto così: in attesa di capire se Theo Hernández svolterà definitivamente da centrale, se Daichi Kamada esploderà davvero, se Stefan el Shaarawy sarà il “Giaccherini” di Luciano Spalletti, è bello godersi l’ultima storia che questo campionato ha da raccontare.

Prima di ferragosto 2023, Lazar Samardžić era un nuovo calciatore dell’Inter. E in contropartita a Udine avrebbe dovuto andare Giovanni Fabbian, che aveva già rilasciato le prime interviste da neo-friulano. Poi l’affare principale saltò, e i nerazzurri dirottarono a Bologna il giovane nazionale, che aveva bisogno di giocare con continuità per rivelare il suo talento. La Serie A ha detto che gli emiliani ora sono un team da Champions League, e che Fabbian ha spesso e volentieri tolto le castagne dal fuoco al momento opportuno, mentre l’Udinese (con Samardžić decisivo la scorsa settimana, dopo mesi di contraccolpo da mancato scudetto) ha dovuto attendere il fischio finale dell’ultima partita per dirsi salva. Nessuno avrebbe disegnato questo percorso, tutti o quasi ne hanno ricavato soddisfazione: se può essere un insegnamento, mai pensare che un qualsiasi crocicchio porti alla destinazione sbagliata. Specie con gli Europei e la Copa America alle porte.


 

Crocicchi è la rubrica di Enrico Veronese che ci ha tenuto compagnia in questi mesi di Serie A. Un racconto, giornata dopo giornata, degli incastri imperfetti che il calcio sa mettere in un campo di gioco, di tutto ciò che sarebbe potuto essere, ma non è stato. Che poi, in fondo, è il bello del calcio.