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Scrittori in Giro

Il Giro d'Italia secondo Gian Luca Favetto

Marco Pastonesi

Per lo scrittore la corsa rosa "è un paese di memorie. Le memorie sono tessere che s’innestano l’una sull’altra, sono scarti e scatti, sono fughe e treni, come in una corsa a tappe"

Dieci righe. S’intitolano “En danseuse” e suonano così: “Grimpa. Traduce liquido l’asfalto / in acqua che suda tossine / dai muscoli e sale / danzando a rumba la fatica / tornante dopo tornante. / Che cosa tiene avvinti all’aria? / Cosa nei suoi polmoni spira? / I pedali sono il cammino, / la vetta è nelle gambe, / le gambe conoscono il destino”.

Era il 2009 quando Gian Luca Favetto ha pubblicato “En danseuse” (“Mappamondi e corsari”, Interlinea, 94 pagine, 12 euro), quel movimento da ballerino compiuto dai corridori che pedalano in salita stando sui pedali e non sulla sella, oscillando la bici in maniera asimmetrica rispetto al corpo, la bici a sinistra e il corpo a destra, la bici a destra e il corpo a sinistra, un ritmo da salita, una danza stradale e montanara, un’andatura più faticosa ma anche più redditizia, un simbolo della sofferenza e della ostinazione. Quattro anni prima Favetto – come Pratolini e Ortese, come Gatto e Buzzati – aveva accompagnato il Giro d’Italia, macchina (Alfa 156) e numero (48 sbarrato), con l’impegno di scrivere un libro per la Mondadori. Così era nato “Italia, provincia del Giro” (del 2006, 256 pagine, 15 euro), storie di eroi, strade e inutile fughe, un lungo racconto che comincia dalla penultima tappa, quando anche Favetto aveva ormai imparato a pedalare nella pancia della carovana composta non solo dai corridori, ma da quel circo di meccanici e massaggiatori, direttori sportivi e team manager, addetti ai lavori e giornalisti di ciclismo, miss e suiveur, sponsor e appassionati, parenti e collezionisti, un paese ambulante che ogni giorno trasloca, invade, occupa e poi fugge lasciando scie e – come “En danseuse” - poesie.

Torinese, del 1957. Giornalista, drammaturgo, critico cinematografico, conduttore radiofonico, attore teatrale, soprattutto scrittore, romanziere e poeta. Quello con Favetto era l’ottantottesimo Giro d’Italia: “Immagina la parola ottantotto, in numeri: 88. Tracciato smilzo come nel logo del Giro, l’otto è il simbolo dell’infinito alzato in piedi, con la sua ombra accanto. Un doppio infinito. Se invece lo pensi orizzontale, l’otto con il suo doppio, con il suo rimorchio, è la perfetta proiezione di una pedalata sull’asfalto. Quando passano le biciclette in coro, il sole disegna sulle strade una catena di otto ripetuti all’infinito – sembrano piste per le biglie o per i trenini dove puoi giocare, e giocando viaggiare all’infinito”.

La sensibilità, che si traduce in immagini e visioni – di uno scrittore come Favetto ha un altro ritmo, un’altra velocità, un altro stile. Come chi pesta sui pedali, chi spinge sui pedali, chi li accarezza. Coppi li accarezzava: ed era, il suo, un ciclismo poetico, romantico, sentimentale. Favetto li accarezza sulle sfumature, sulle nostalgie, sui respiri, infine sulla tastiera. “Non puoi capire quanto passi veloce il tempo, se non vedi i corridori in salita lottare contro la pendenza. Passa più veloce che nei cento metri piani. L’atleta è lì, il tuo sguardo lo inquadra a una decina di metri, lo contiene tutto, è a un passo ora, a un soffio, ma ne sfilano ancora parecchi, di secondi, di attimi, prima che riesca a raggiungerti e a superarti. Nei cento metri piani, gli sprinter vanno più veloci del tempo; qui invece il tempo è un fulmine e i ciclisti sono il tuono”.

“Il Giro – scrive Favetto – è un paese di memorie. Le memorie sono tessere che s’innestano l’una sull’altra, sono scarti e scatti, sono fughe e treni, come in una corsa a tappe”. E poi: “Il Giro è una città a sé stante. Fa comune, provincia. E’ un paese più che una città, con leggi sue, regole, tradizioni, abitudini, confini. Te ne accorgi standoci dentro”. E ancora: “Anche i paesi possono essere nomadi o stanziali. Il Giro è un paese che si muove, ha le sue radici nello spostamento. E’ un campanile, un porto ogni volta nuovo, una comunità”.

E di quel micromondo a raggi, a pedivelle, a camere d’aria, Favetto non ha potuto che innamorarsene. Il suo contributo più recente sta in un diario collettivo, quello composto per “L’ultima volta che se ne è andato Pantani” (alvento, 204 pagine, 19 euro; a cura di Filippo Cauz e Gino Cervi). Quaranta autori ritornano a quel fatale 14 febbraio 2004. “Inimmaginabile. Non immaginavo che fosse a quel punto. Non sapevo della depressione, né della droga. Non sapevo del suo buio così buio. Per me Marco Pantani, che dicevano non fosse più lui, era leggenda – intoccabile dal male e inaffondabile dalle sventure che pure lo avevano colpito. Come ogni leggenda, tutto poteva, meno che morire. Non sarebbe mai sceso dalla bicicletta e avrebbe rimontato tutto. Era in fuga, chissà dov’era arrivato in piedi sui pedali. La morte era indietro, non poteva raggiungerlo”.

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