Foto Ap, via LaPresse

Champion Cities

Se fosse un contest musicale Manchester City-Real Madrid finirebbe tanto a poco per i Cities

Gino Cervi

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Manchester non solo è stata la capitale della scena musicale inglese, ma anche il posto dove si suonava in modo più innovativo e sperimentale. Ma City-Real si giocherà tirando calci a un pallone non suonando la chitarra

Se, dopo l’incantevole son et lumière dell’andata al Santiago Bernabeu, il quarto di finale di ritorno di Champions League tra Manchester City e Real Madrid diventasse un contest musicale, una sorta di eupallico Eurofestival di glorie canore locali, ai Merengues il grande prestigio e la lunga tradizione calcistica non varrebbero nulla al cospetto dello showdown di cui i Citizen sarebbero capaci mettendo in campo una batteria di veri big della scena rock.

C’è stato un momento in cui Manchester è stata la capitale della scena musicale inglese. Era la fine degli anni Settanta e il Liverpool FC, nel calcio, continuava l’egemonia che nel decennio precedente avevano esercitato, in campo musicale, dei Beatles. I Reds, a differenza dei Fab Four, però non si erano sciolti e presidiavano solidamente campionato inglese – 8 titoli tra il 1972-73 e 1983-84 – e Coppa dei Campioni – 4 vittorie tra il 1976-77 e 1983-84. Per contro, su entrambe le rive dell’Irwell si era smesso di vincere da un po’: avrebbero ricominciato a farlo solo quindici anni dopo, lo United, o addirittura trentacinque, il City.

Ma a metà anni Settanta arrivò il punk. Anzi esplose. E la leggenda vuole che esplose proprio in un locale di Manchester, la sera del 4 giugno 1976, un venerdì. Il posto era il Lesser Free Trade Hall e sul quel palco, davanti a un pubblico che forse non arrivava neppure a cento spettatori, accadde una piccola rivoluzione. Due amici, Howard Devoto e Pete Shelley, qualche mese prima erano andati a Londra per assistere dal vivo a un concerto dei Sex Pistols. Certo, Londra era il posto dove tutto sarebbe potuto succedere e di certo stati ben di più a cantare, bere e ballare sotto il palco di un club. Manchester era una città triste, livida e già quasi sprofondata nell’incipiente grande crisi postindustriale. Fine delle fabbriche, interi pezzi nerofumo di città ancora dickensiana avrebbero perso la loro, per quanto triste e lurida, ragione di esistere. Ma Howard e Pete ebbero l’illuminazione e convinsero non si sa come Malcolm McLaren, il manager e produttore dei Sex Pistols, ad accettare l’ingaggio al Lesser Free Trade Hall di Manchester. Anzi, fecero di più: dopo aver reclutato un bassista e un batterista, misero in piedi nelle settimane precedenti una band e, con il nome di Buzzcocks, fecero da supporter al concerto.

 

 

Ad ascoltare Johnny Rotten & Co. erano pochi ma buoni. Perché la leggenda vuole che la grande stagione mancuniana della composita galassia di post punk, new wave, alternative rock, rock psichedelico, rock elettronico, gothic rock, indie pop, acid house, alternative dance e quindi brit pop nasca proprio dal fatto che quella sera lì, tra il pubblico, c’erano proprio le persone giuste.

Ad esempio, c’erano Peter Hook – che il giorno dopo andò a comprasi un basso – e il suo amico Bernard Sumner: l’anno dopo, con Ian Curtis, cantante e poeta, fondarono una band, i Warsaw – dal nome di un pezzo strumentale di David Bowie, Warszawa – che, nel gennaio 1978, diventò i Joy Division. Durarono pochissimo: già nel 1980 si sciolsero a causa del suicidio di Curtis, ma che si ricostituirono subito dopo sotto il nome dei New Order, che, dopo vari stop&go, vivono e lottano ancora insieme a noi.

 

 

Ma nella presumibilmente fumosissima Lesser Free Trade Hall c’era anche un altro mito della canzone d’autore britannica. Aveva compiuto poco più di 17 anni Steven Patrick Morrisey, ma già scriveva come un matto. Sarebbe entrato e uscito in una mezza dozzina di formazioni punk rock prima di fondare, sei anni dopo, insieme al chitarrista Johnny Marr, The Smiths, soli sei anni di attività (1982-87) ma tra le rock band che fecero storia.

 

 

  

C’era anche Mark E. Smith, fondatore e frontman dei The Fall, dal 1976 al 2018, anno della sua morte. C’era, non ancora sedicenne, Mick Hucknall, che otto anni dopo avrebbe messo insieme i Simply Red, insieme a Anthony Bowers e Chris Joyce, due componenti della Durutti Column, altra band nata per gemmazione dalla scena post-punk mancuniana. E molto probabilmente era presente anche Tony Wilson, noto anche come Mister Manchester: giornalista musicale e poi conduttore radiofonico e televisivo è stato anche il produttore discografico che, con la sua etichetta di musica indipendente Factory Records, assistette alla nascita e al successo di Joy Division/New Order, A Certain Ratio ed Happy Mondays, nonché proprietario del The Haçienda, la sala da concerto dove si esibirono, dal 1982 al 1997, le band di maggior successo di quella stagione. Se Manchester tra gli anni Ottanta e Novanta divenne Madchester, ovvero la scena musicale più innovativa e sperimentale tra alternative rock e rock psichedelico, post punk e acid house – con altri gruppi emergenti come Stone Roses e Inspiral Carpets –, lo deve fondamentalmente a Wilson, a cui, nel 2002, pochi anni prima che morisse, il regista Michael Winterbottom ha dedicato il documentario 24 Hour Party People.

E senza tutto questo, probabilmente a Manchester non sarebbero arrivati, nei primi anni Novanta, gli Oasis, band simbolo del Brit Pop, dei due litigiosi fratelli Gallagher, cresciuti sulle tribune del Maine Road, vecchio stadio del City; i Blur

 

   

Ora, potete capire che contro una formazione tipo Peter Hook, Bernard Sumner, Stephen Morris; Gillian Gilbert, Johnny Marr, Andy Rourke; Mark E. Smith, Tony Wilson, Liam Gallagher, Morrisey, Noel Gallagher … ben poca resistenza opporrebbe un undici madridista con Julio Iglesias in porta – benché, a inizio anni Sessanta, risulti abbia giocato in quel ruolo nelle giovanili del Real –, e, al centro dell’attacco, la potenza un po’ sfiatata di Placido Domingo. L’unico rimedio, forse, sarebbe poter mettere in musica i versi che Vinicius de Moraes dedicò tanti anni fa a Garrincha e farli “interpretare” da Vinícius Jr:

A un passo da Didi, Garrincha avanza
il pallone incollato ai piedi, lo sguardo attento
dribbla una volta, dribbla due, dopo riposa
come per misurare il tiro del momento. […]

Garrincha, l’angelo, ascolta e considera: Goooool!
È una pura immagine: una G che tira un calcio a una O
dentro la curva, una L. È pura danza!

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