Xabi Alonso - foto Ansa

Il Foglio sportivo

Xabi Alonso e quei no che ti aiutano a vincere

Fulvio Paglialunga

Ha rifiutato Bayern Monaco e Liverpool per restare dove sta bene ed è pronto a fare la storia con il Bayer

Xabi Alonso forse vince oggi, forse domani. Ma la sua vera impresa è di fine marzo, quando quasi nessuno se l’aspettava. Seduto dietro l’ordinario tavolo delle conferenze stampa prepartita – quelle spesso piene di parole scontate, con sponsor che scorrono alle spalle e prodotti esibiti su un tavolino come fosse il bancone di un bar (si contano una bevanda energetica, due bottigliette di birra, due diverse di Coca Cola) –, con le braccia conserte, poggiate sul tavolo e il volto sereno di chi è a posto con sé, ha fermato il mondo intorno a lui: ha deciso di restare, tenersi la panchina del Bayer Leverkusen. Di dire no ai grandi, perché grandi si può anche diventare: “Sento che questo è il posto giusto per me, per migliorare come allenatore, visto che sono un giovane allenatore. Il mio lavoro al Bayer non è finito, voglio aiutare la squadra, voglio aiutare i giovani a crescere, e sono felice”. Tutto quello che in questa frase può apparire scontato non lo è. È, anzi, quasi sovversivo: far notizia con una non notizia, cambiare il racconto su di sé senza nemmeno una scorciatoia.
 

Xabi Alonso, da calciatore, è stato una stella: giocava nella Spagna che era fatta di Furie Rosse per davvero, di quella generazione che vinse due Europei e un Mondiale in quattro anni. Poi ha scelto di allenare, aveva la fama per proporsi, ma prima ha preferito formarsi, senza cedere all’ansia di emergere in fretta, senza tentare di bruciare le tappe, preferendo cercare una connessione personale che lo mettesse innanzitutto a proprio agio, nella vita dopo il campo. Quando è diventato allenatore ha cominciato dall’Under 14 del Real Madrid, il club nel quale ha giocato di più, poi è tornato nei Paesi Baschi, a San Sebastian – dove ha iniziato, dove è cresciuto, praticamente casa sua – per guidare la squadra B della Real Sociedad. Ha scelto una vita lenta, prima di lanciarsi in quel pezzo di mondo del calcio dove tutto può darti luce, ma nulla può esserti perdonato, dove le carriere possono accendersi in un giorno e spegnersi anche più velocemente.
 

Ora se si guarda la classifica della Bundesliga il Leverkusen è primo, ha sedici punti di vantaggio sulla seconda a sei partite dalla fine, potrebbe finire il campionato da imbattuta (anzi, non ha perso nessuna delle quarantuno partite giocate in questa stagione). Se oggi il Bayern Monaco non vince con il Colonia o se domani il Bayer batte il Werder Brema, il titolo sarà assegnato con largo anticipo ed è già una rivoluzione, nel campionato vinto negli ultimi undici anni sempre e solo dal Bayern Monaco, che invece il Leverkusen non ha vinto mai (ultimo titolo segnalato: la Coppa di Germania del 1993). Ma quando Xabi Alonso ha detto che sì, era il momento di lanciarsi nel calcio più adulto (era ottobre 2022) il Bayer lo aveva chiamato in una situazione potenzialmente compromettente: cinque punti in otto partite, penultimi in campionato. Da lì è cominciata la ricostruzione di una squadra che ora è anche in finale nella Dfb-Pokal (la Coppa di Germania) e ha ipotecato battendo 2-0 il West Ham United l’ingresso nella semifinale di Europa League, e che ha brillato della luce del suo allenatore. Quello silenzioso, che non ha chiesto il palcoscenico da subito e se l’è guadagnato. E, ora, vuole tenerselo: l’impresa di Xabi Alonso, questo è il punto, non è aver portato il Leverkusen fino a questo punto, è aver cambiato il modo di coltivare grandi ambizioni. Il Liverpool, per il dopo Klopp, ha pensato di portarlo sulla panchina di Anfield, il Bayern Monaco si è detto che forse il modo per riprendersi lo scettro è chiamare l’allenatore che glielo ha tolto, metterlo sotto contratto. Entrambe le squadre, gli stadi, le piazze non sono nuove a Xabi, perché con i Reds ha giocato quasi centocinquanta partite e a Monaco di Baviera ha giocato le ultime stagioni da calciatore. Nessuna delle due squadre, forse, aveva tenuto conto del concetto di bellezza che Xabi Alonso nel frattempo aveva maturato: il lusso di poter allenare dove sta bene, nel posto che gli sembra giusto, non dove c’è il contratto migliore, non dove c’è la ribalta più semplice. Ora si parla di lui, più che dei suoi risultati: per la forza di un doppio “no”, perché in grado di parlare di sé come di un allenatore che ha voglia di migliorare proprio quando è a un passo da una vittoria storica, perché fa coincidere il suo futuro e le sue fortune con quelle della squadra che ha scommesso su di lui. Spiega, Xabi Alonso, che nel calcio che ciclicamente pensa di poter decidere a tavolino chi sono le grandi, c’è ancora il posto per chi grande lo vuole diventare. E quindi ecco che una banale conferenza stampa prima di una partita si trasforma in una lezione, forse in un principio di nuova modernità, che fa diventare la frase “fare come Xabi Alonso” un concetto alto di comportamento, l’espressione di un’etica nuova, della pazienza di chi farà carriera, ma con calma e in modo duraturo, quindi senza fughe in avanti.
 

Per questo ora ci chiediamo se Thiago Motta, esploso a Bologna e tecnico assai quotato, andrà in una grande o “farà come Xabi Alonso”, se Daniele De Rossi, che per allenare ha cominciato dalla Spal nell’anno forse più difficile per la squadra di Ferrara e ora a Roma sta costruendo davvero la sua carriera, “farà come Xabi Alonso”. Un anno fa tra Spalletti e il Napoli non è andata così, è anzi finita male per i saluti al veleno e per la stagione di chi era appena tornato campione d’Italia. Ma Xabi era troppo impegnato a costruire un miracolo per essere già un esempio. Ora, invece, lo è.

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