L'arte della lotta di Akebono Taro
È morto a 54 anni la leggenda del Sumo nato sull’isola di Oahu, alle Hawaii, divenuto nel 1996 cittadino giapponese per meriti sportivi
Duecentotre centimetri di altezza a contenere oltre duecento chilogrammi, per la precisione 203 quando era in forma e 233 quando invece il suo corpo aveva deciso di sovrastarlo. Un gigante buono incellophanato dal “Mavashi”, il patello di seta che usano i lottatori di sumo a mo’ di perizoma. Una statua enorme che la memoria restituisce accovacciato a gambe divaricate, un campione che incuteva rispetto e soggezione, con due braccia che somigliavano a tronchi. Un colosso dai movimenti lenti, misurati, definitivi; l’arte della lotta custodita dentro una vita XXL, giocata tutta al rallentatore. Un semidio dal faccione inespressivo, di muta cera, sempre teso al combattimento, condizione che visse prima come un privilegio e poi come una condanna. Akebono Taro, all’anagrafe Chad George Ha’aheo Rowan, è stato una leggenda del Sumo. Se n’è andato oggi, aveva 54 anni: a tradirlo è stato il cuore.
Quando si affacciò nel mondo del sumo venne considerato un intruso, uno che non c’entrava niente. E’ stato Il primo lottatore di sumo straniero a meritarsi, nel 1993, il titolo di “Yokozuna”, cioè di “Grande campione”. Prima era stato “Rikishi”, cioè “Uomo forte”. Akebono Taro è stato una leggenda in una disciplina che a noi europei risulta bizzarra, talvolta incomprensibile. Uomini giganteschi coperti da un perizoma fanno la lotta per non perdere l’equilibrio e spingere l’avversario oltre il perimetro dell’agone. In realtà il sumo ha origini molto antiche. È nato attorno al VI secolo, come replica tra gli umani della leggendaria lotta tra divinità. Veniva offerto come intrattenimento per gli dèi, durante i riti shintoisti.
Era nato nel 1969 sull’isola di Oahu, alle Hawaii, poco più che adolescente si era trasferito a Tokyo. Nel 1996 era diventato cittadino giapponese per meriti sportivi. Akebono significa “Alba”. La stima nei suoi confronti sconfinava nell’adorazione.
Fece del “Dohyo”, il sacro recinto del sumo, il suo giardino dei giochi. In un mondo frequentato da uomini di straordinarie dimensioni, lottatori dalle sagome dilatate e burrose; Akebono Taro si distingueva per la profondissima conoscenza dei gesti che in Giappone vengono considerati alla stregua di una religione, con un vangelo di riti, gerarchie, tradizioni e rituali. La sua disciplina era leggendaria. Nella sua carriera Akebono Taro vinse undici tornei, ma la soddisfazione più grande l’ha avuta quando venne scelto per eseguire una dimostrazione di sumo alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Nagano, nel 1998.
Akebono Taro soffriva da tempo di cardiopatia, negli ultimi anni aveva perso la memoria. Era sposato con Christine, insieme avevano una figlia. Quando si ritirò, nel settembre del 2001, tutto il Giappone si fermò. Come in una messa laica, il paese intero assistette al taglio del codino. “Sono profondamente triste”, si limitò a dire. Era finita un’epoca. Vent’anni fa, era tornato sul ring per una esibizione, contro l'americano Sapp. Fu una pagliacciata non se la meritava. Sconfitto, venne inquadrato dalle telecamere. Una lacrima gli rigava il volto, perduto in una espressione di candido stupore.
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