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Il calcio, la politica, i fantasmi di un uomo, prima ancora che di un calciatore. Buffon si racconta

Chicco Testa

"Ero indisciplinato, pensavo, con i miei vent’anni e il mio talento, di potere fare come mi pareva. Il capitano della mia squadra chiese all’allenatore di mettermi fuori. Dalla disapprovazione degli altri, ho capito che qualcosa che non andava”.  L’88 sulla maglia, Ulivieri e Quattrocchi: l'ex portiere di Parma e Juve ripercorre 30 anni di pallone

Gigi Buffon è una persona complessa, è diventato una persona complessa, ma sempre un po’ nascondendosi dietro all’atteggiamento esuberante, un po’ guascone, che contraddistingue la gente della sua terra. Carrara, a cavallo fra Toscana e Liguria, dove la vita si affronta sempre di petto, senza mai guardarsi indietro e senza rimpianti. Forse uno, certo. Quella maledetta Champions, che se aggiunta alla lista dei trofei vinti avrebbe reso la sua carriera più che perfetta. Ma lo dico – da tifoso e da amico – anche basandomi su numeri e risultati, Gigi è il più grande fra i portieri dell’epoca moderna.

Nessuno come lui è rimasto a quel livello per un periodo di tempo così lungo, dai 17 ai 45 anni, ancora stupendo nel suo ultimo anno al Parma per la qualità delle sue parate e per quei miracoli, che lo hanno contraddistinto sin dall’esordio. Una volta, dopo una parata su un tiro di Balotelli, da un metro e a porta spalancata, con un Buffon a terra per una parata precedente, glielo chiesi: ma come hai fatto? “Culo”, mi rispose, “ci vuole culo”. Il che è comunque sempre vero, ma solo per chi sa riconoscere la fortuna quando gli passa accanto e si predispone ad accoglierla. Anche questa è una qualità. Se cerchi la collezione delle “papere”, ci sono anche quelle: in 30 anni di carriera forse ne metti insieme una decina. Una ogni tre anni. 

Una volta andai a sentirlo a Milano al Circolo filologico dove aveva accettato di fare un discorso su se stesso. Aveva scelto il titolo: “Relativismo”.  Un titolo da niente. Quindici minuti in un ottimo italiano. Mi ero segnato questa frase: “Il pubblico spesso pensa che un grande atleta sia anche un grande uomo. Ma non è così. La ricerca di un atteggiamento maturo e responsabile è qualche cosa che non viene da sé insieme ai meriti sportivi. E’ invece il risultato di un lavoro costante che devi fare su te stesso per migliorarti”. Cosa non facile per un ragazzo, oggi uomo, che ha passato un numero incredibile di giornate o in ritiro o andando al campo ogni giorno per lo stesso rituale: indossare scarpe, maglia e pettorina, allenamento, doccia, abiti civili. Stessi gesti, giorni uguali, per 30 anni. Compresa ogni maledetta domenica. Frequentando compagni con molti meriti, ma non certo famosi, a parte qualche eccezione, per le loro doti intellettuali. Senza perdere la testa per il successo e i soldi, facili e tanti, che erano arrivati prestissimo. “A un certo punto  mi sono reso conto che nonostante il mio iniziale e forte successo sportivo e i primi soldi importanti che guadagnavo, non riscuotevo presso la mia famiglia, ma anche presso i miei compagni, lo stesso successo. Mio padre mi vide arrivare con una Porsche gialla, comprata con i primi soldi, mi guardò con sufficienza e una certa disapprovazione e mi disse: per favore, vendiamola al più presto. Ero indisciplinato, rompevo le regole, pensavo, con i miei vent’anni e il mio talento, di potere fare come mi pareva. Il capitano della mia squadra chiese all’allenatore di mettermi fuori. Allora, dalla disapprovazione degli altri, ho capito che c’era qualche cosa che non andava”. 

 

Poi c’è il capitolo Buffon e la destra. “Boia chi molla”, scritto sulla maglietta. “Avevo 18 anni e giuro che non avevo idea dell’origine di quel motto e di chi lo aveva usato. Colpa mia. Lo avevo letto su un banco del collegio e mi sembrava adatto a esprimere il mio stato d’animo in quel momento. Tutto qui. Il secondo episodio fu, quando rientrai dopo un incidente che mi costrinse a saltare gli Europei del 2000. Era il primo anno che ci era consentito scegliere il numero. Volevo il doppio zero, ma non fu possibile, cosi scelsi il doppio 8. Vai a saperlo, credo non lo sapesse proprio nessuno che era un numero legato al nazismo, in quanto la lettera n. 8 è la H. La stessa di ‘Heil Hitler’. Fu la comunità ebraica a segnalarlo e accusarmi. Ma ti giuro, cascai dalle nuvole. Per me, da buon carrarese, era solo la scelta di segnalare che tornavo con tutti i miei attributi, non so se mi spiego”. Quattro palle anziché le due ordinarie, insomma. 

Se poi rimane qualche dubbio ecco il suo rapporto con Ulivieri. “Guarda, quando ero allenato da Ulivieri, uno che teneva il busto di Stalin in casa e peraltro ottimo allenatore, siccome ebbe diverse prove da parte mia di quanto tenevo in conto il senso di giustizia verso tutti, senza favoritismi o discriminazioni, mi prese da parte e mi disse: ‘Io e te andiamo d’accordo, non capisco proprio perché dicano che sei uno di destra’”. Ma forse quel che spiega meglio il carattere e l’atteggiamento di Buffon verso la vita è la risposta che mi diede una volta sul suo contestato apprezzamento per Fabrizio Quattrocchi. “Io quel giorno del 2015 feci una dedica a due persone contemporaneamente. Era l’anniversario della morte di Quattrocchi, che morì cercando di levarsi il cappuccio che gli avevano messo in testa per guardare in faccia i suoi assassini e dicendo loro: adesso vi faccio vedere come muore un italiano; e di Morosini, un mio collega, un calciatore morto in campo colpito da un infarto plurimo, che tentava ogni volta di rialzarsi per riprendere la partita. Mi sembrarono, in campi diversi, due atteggiamenti ugualmente coraggiosi, animati da una passione infinita. Sono morti con coraggio e Quattrocchi da Ciampi, non certo un uomo di destra, è stato insignito con la medaglia d’oro al valore civile. Quando un uomo mette in ballo la propria vita merita rispetto”. 

Ho conosciuto Gigi all’inizio della sua storia con Ilaria D’Amico. Un calciatore con una giovane giornalista, molto per bene e politicamente corretta? Beh, funziona alla grande, credetemi, e non sono tutte rose e fiori. Provate voi a giocare a Parma, avendo un figlio con la sua compagna a Milano e altri due figli a Torino. Andando in trasferta una domenica sì e l’altra comunque impegnata. Probabilmente nella sua decisione di lasciare il calcio, di rifiutare offerte milionarie all’estero,  c’è anche un po’ di rimorso per il poco tempo disponibile per i suoi figli. La scelta quindi di fare il padre a tempo (quasi) pieno. Di superare insomma quella linea d’ombra, che separa lo sportivo professionista e la sua vita scomoda , ma che è anche una comfort zone con la sua routine, dall’affrontare un’altra vita, normale e in cui rimettersi in gioco. Non a caso il film su Totti, in buona parte centrato proprio su questo passaggio, si intitola “Speravo de mori’ prima”. 

Buffon ha fatto molto lavoro su se stesso, anche superando, come è noto, momenti difficili, tipici di chi non è soddisfatto di sé e avverte il malore che ne deriva.   E’ un italiano anomalo, che chiede alla vita tanto quanto chiede a se stesso. Ovunque andrà, farà bene. 

P.s. Per gli appassionati di calcio. Gli ho anche chiesto chi sono stati per lui i migliori calciatori italiani. Baggio, Pirlo, Totti, Del Piero, Cassano.   
 

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