Zlatan Ibrahimovic (Lapresse)

Il ritratto di Bonanza

Ibrahimovic e la luce

Alessandro Bonan

Il finale tutto da scrivere della sua carriera, diviso fra rassegnazione e speranza. Ma il suo buio, così simile a quello di tanti altri comuni mortali, non sarà sinonimo di paura

C’è ancora vita sopra il nostro pallone. Non solo castrazioni arbitrali, processi juventini, ma anche Napoli, con la sua bellezza di gioco, e Inter e Milan, dirimpettai di Champions, dopo vent’anni che sono trascorsi così in fretta da farci sembrare le nostre rughe disegni che qualcuno ci ha fatto per dispetto. Archiviata la Coppa Italia, con appuntamento al 24 maggio per la finale a Roma, in attesa della festa scudetto al Maradona, sono state notate dai fedeli lacrime asciutte sulla faccia di Ibrahimovic. Non sa che cosa fare della sua vita così repentinamente uguale a quella di tanti comuni mortali, indecisi sul come andare avanti. Una paura che ricorda quella di uno scrittore, incapace di decidere un finale: aperto o chiuso, un dolce spiegare o un troncare improvviso?

 

Ibra vorrebbe determinare il tempo, cancellare tutte le rughe (le ha disegnate un bambino?), sciogliere i suoi muscoli, correre veloce come quando lo sospingeva l’argento della giovinezza. Fin quando è fiction (e lui è un piccolo grande attore) si può tutto, basta un trucco, una scena rallentata, una controfigura nel momento dell’acrobazia. Però fiction non è, lo sanno bene i suoi compagni, l’allenatore e soprattutto gli avversari. E poi, languida conclusione, lo sa anche lui. Da qui l’inevitabile dilemma umano: rassegnarsi, con una decisione passiva, scattare, sfidando il tempo (attenzione alle sirene, che provano a trascinare tra le onde chiunque le ascolti), oppure reagire con il coraggio di chi sa dire di sì alla vita, che non è solo calcio, con le sue rincorse brevi, il fulgore, il centro dell’attenzione, ma respiro lunghissimo, affannoso, e spesso margine, ma anche mistero, avventura e spazio da conquistare.

 

Attenzione, questo non è un consiglio, non saprei come darne, vista la marca della mia esistenza, così diversa da quella di un campione. È solo una constatazione di chi ha vissuto un po’ più a lungo rispetto al centravanti del Milan, il quale dovrebbe forse dedicare a se stesso uno dei suoi proverbiali sguardi per decidersi. Spaventarsi con occhi severi, o sorridersi indulgente? Ci fu una lunga lettera (è un romanzo), inventata dalla penna di una grande scrittrice, in cui un imperatore romano, tra i suggestivi pensieri, scriveva di come temesse che il suo corpo malato avesse ormai paura di lui. L’imperatore, conoscendo la sorte a cui andava incontro, si rassegnò a contare “distrattamente le stelle e le losanghe della coperta”. Ibra, ancora dritto e pienamente in salute, non deve trasmettere paure al suo corpo, e, a differenza dell’imperatore, nemmeno al suo futuro che non sarà “come un sasso gettato in una voragine buia”. Perché quel buio, a quarant’anni, non è che luce.

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