Il Foglio sportivo

Günther Steiner, star per caso della Formula 1

Umberto Zapelloni

Da meccanico a team principal della Haas. Grazie a Netflix e Race Anatomy è diventato una stella: un personaggio che ha conquistato la simpatia dei tifosi e ancora si chiede perché

Si può lavorare per una vita nel mondo dei motori, entrare e uscire dal paddock di Formula 1 senza che un tifoso ti chieda un autografo o un selfie. Poi succede che Drive to survive, la serie di Netflix sul Mondiale arrivata alla quinta stagione, mandi in onda un episodio su di te ed ecco che la pace finisce. Günther Steiner che nel frattempo è diventato una star anche di Race Anatomy, la trasmissione Sky che analizza i Gran premi, sta vivendo tutto questo. I suoi vicini di casa americani che lo salutavano giusto perché era un vicino di casa, oggi lo tempestano di domande sulla sua scuderia. Quando entra o esce da un paddock i tifosi lo trattano come un pilota. Sta vivendo una dimensione da star che mai avrebbe pensato di dover attraversare quando da ragazzo ai muri della sua cameretta di Merano appendeva i poster di auto e piloti invece di quelli dei calciatori. Günther Steiner è l’italianissimo team principal dell’americanissima Haas che di italiano ha tanto altro grazie al lavoro della Dallara sul telaio e ai motori forniti da Ferrari. È un personaggio che ha conquistato la simpatia dei tifosi e ancora si chiede perché

 

“È una cosa che non avevo mai provato – ci racconta – ma se alla gente piace chiedermi un selfie o un autografo non posso certo infastidirmi. All’inizio è anche un po’ strano, poi ci si abitua, ma bisogna ricordarsi che la popolarità così come viene può andare via e restare sempre se stessi”. Restare se stessi. Ecco il mantra di Günther e il motivo per cui non ha mai visto neppure una puntata della serie Netflix: “…e non vado certo a vederla adesso: sono sicuro che se mi guardo, poi vorrei fare certe cose diversamente perché magari non mi sono piaciuto. Io invece voglio restare naturale. Continuare a comportami così come sono. Posso piacere e non piacere, ma io sono così”. Günther arriva in Formula 1 da Merano che è famosa per tante cose, ma non esattamente per i motori. È un ragazzo nato nel 1965 che negli anni Settanta si innamora dei motori: “Guardavo i Gran premi in televisione, ma il primo ricordo che mi viene in mente è quando mio padre mi portò a vedere la Bolzano-Mendola. L’appassionato però non era lui, sono stato io a convincerlo a portarmi perché mi piacevano le auto”. Giocava a hockey su ghiaccio, ma sognava di sporcarsi le mani con i motori. “Ho finito le scuole e poi sono andato a fare l’apprendistato da meccanico e il servizio militare. Non avevo deciso se tornare a studiare o no, ma la voglia mi è passata e a 21 anni sono andato in Belgio a lavorare sulle auto da rally al Mazda Team Europe. Ho visto l’inserzione su un giornale, ho scritto e mi hanno preso. Non sapevo l’inglese, ma l’ho imparato al pub con gli altri ragazzi. Il fatto che fossi già bilingue con italiano e tedesco mi ha aiutato”.

 

Steiner in fin dei conti è il Ron Dennis italiano. Ha cominciato da meccanico ed è diventato team principal. “Non c’è nessuno come me. I meccanici non mi raccontano le storie, sanno bene che io li becco se mi raccontano qualche balla. Gli dico ragazzi, volendo con un po’ di impegno, mi metto lì e la macchina me la faccio da solo. Sono un po’ un autodidatta in tutto. Nei rally ho fatto anche il direttore tecnico, ho fatto anche un po’ di disegni”. In Formula 1 è entrato e uscito un paio di volte prima di diventarne un personaggio in pianta stabile. “Quando lavoravo in Ford, la Jaguar era di proprietà della Ford e Lauda fu chiamato a gestire la Formula 1 per loro. Lui si informò, chiese chi c’era di bravo nella squadra e lo mandarono da me. Così un giorno mi chiamò la sua segretaria e me lo passò. Ci incontrammo a cena a Vienna un sabato sera e la domenica mattina alle 8 Niki mi telefona, mi ringrazia per la serata e mi dice: “Lei verrà a lavorare con me”. Grazie, ma a fare cosa? “Questo non lo so ancora, ma quando sarà l’ora lo vedrà”. Pronti via, a fine anno entra in Jaguar con Lauda. È l’inizio di un’avventura e di un’amicizia che gli cambierà la vita. “Per me Niki è stato un mentore. Lui conosceva tutto e tutti e mi ha aiutato tantissimo. Da lui ho imparato ad ascoltare apertamente tutti i problemi, non nasconderli, non cercare scuse, ma soluzioni. Parlare sempre molto chiaramente con tutti, essere schietti, sinceri, una cosa che anch’io ero abituato a fare e sapere che uno come lui si comportava così mi ha aiutato”. Quando poi la Jaguar è stata acquistata dalla Red Bull e in scuderia è arrivato Christian Horner, a lui è arrivata un’offerta alternativa: “Nella mia vita mi sono preso parecchi rischi. Quando sono entrato in Red Bull all’inizio nessuno poteva prevedere dove sarebbe arrivata. Mateschitz mi ha chiesto di andare a formare una squadra in Nascar, ne ho parlato con mia moglie e siamo partiti. In America ho avuto la possibilità di fondare la mia azienda di compositi e poi di far nascere da zero una squadra di Formula 1. Non posso avere rimpianti perché mi è andata bene”.

 

Nato in Italia, lassù al confine con l’Austria dove a scuola si studia il tedesco, cittadino americano. Come si sente Steiner: “Prima mi chiedevano se mi sentivo italiano o tedesco, ora se mi sento italiano o americano. Ormai mi sento una persona globale”. In Carolina del Nord, dove ha messo radici con moglie e figlia e ha fondato la sua azienda, gli è venuta ancora voglia di Formula 1. Ma una voglia particolare, quella di creare una squadra americana da gestire. Ha lavorato al business plan e ha cominciato a cercare compagni d’avventura. Un socio finanziatore, proprietario del team come Gene Haas da una vita nelle corse americane e due partner tecnologici che tutti vorrebbero, Dallara e Ferrari. “Nelle corse c’è tanta gente intelligente e furba – spiega –  E dire faccio le stesse cose, ma le faccio meglio non aveva senso. Ho dovuto trovare un’altra strada. Fare le cose in modo diverso. Ho studiato il mio business plan e ho cominciato a proporlo a Haas, alla Ferrari, alla Dallara. Stefano Domenicali che era un grande amico e ai tempi era ancora in Ferrari mi ha aiutato molto. Ha creduto nel mio piano, così come l’ingegner Pontremoli in Dallara. Hanno capito quello che volevo fare e si sono fidati di me. Stefano ha visto l’opportunità e mi ha dato una mano. In un primo momento mi guardavano strano. Poi però riuscivo a spiegare bene il piano che avevo in testa e mi hanno dato fiducia. La mia idea era: non andiamo a farci tutto da soli, ma cerchiamoci dei partner molto capaci”.

 

Ha funzionato. La Haas ha esordito in Formula 1 nel 2016 e ora è parte stabile dello spettacolo. Ha rischiato di vedere un suo pilota (Grosjean) bruciare tra le fiamme in Bahrain, ha festeggiato un’incredibile pole con Magnussen in Brasile pochi mesi fa. “Ma il momento più bello è stato il giorno dell’esordio in Australia. Tutti ci guardavano con sospetto. Noi siamo arrivati ben preparati e siamo andati subito a punti. E da lì in po’ la gente ha creduto in noi, anche chi ci accusava di aver copiato tutto ha capito che avevamo creato una squadra forte”. Una squadra che ha scelto due piloti esperti come Magnussen e Hulkenberg (“Ma Mick Schumacher non lo abbiamo bocciato, solo che avevamo bisogno di piloti esperti”) e ora ha un sogno: “Noi non siamo qui per partecipare, ma per crescere, avere successo. Siamo finiti ottavi e se avessimo gestito meglio un paio di cose all’inizio avremmo anche potuto finire settimi. Quest’anno il mio obbiettivo è arrivare sesti. Ma dobbiamo essere pronti se ci capita l’occasione come l’anno scorso in Brasile”. In fin dei conti “Quando piove minestra bisogna avere il cucchiaio in mano” è una delle sue frasi celebri. E anche l’ultima trovata vista nei test in Bahrain, dove ha schierato solo tre ingegneri al muretto box, ha una sua filosofia ben precisa: “Meglio avere sei persone là fuori o 250 mila dollari in più da investire sull’auto?”. Chiaro no chi sia Günther Steiner...

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