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Qatar 2022

Il Qatar e l'inutile puritanesimo calcistico

Maurizio Crippa

Sport professionistico, diplomazia e la misura dell’Economist. Breve elenco di fatti e persone per sconsigliare i moralismi

Ci sono stati migliaia di lavoratori morti (cosa accadde a Pechino o Sochi non lo sapremo mai) ed è ovviamente terribile e ingiusto; ma i 6.500 nel decennio indicati dal Guardian sono lo stesso tragico numero delle morti sul lavoro in Italia. “C’è molta meno libertà sessuale che nei paesi occidentali”, scrive l’Economist, che però annota come la situazione sia identica “in gran parte del mondo in via di sviluppo e in quasi tutti i paesi musulmani”. Il Qatar non è una democrazia, ma in occasione dei Mondiali in Russia del 2018 Amnesty International allestì una Nazionale “Squadra Coraggio” fatta di 11 campioni dei diritti umani detenuti dal regime di Putin: tutti andarono lo stesso a festeggiare.

 

I Mondiali a Doha non andavano fatti, troppo caldo e niente birra: giusto, ma hanno avuto 12 anni per accorgersene. Sono stati il frutto del malaffare di Sarkozy & Soci: sì, ma France Football fece scoppiare il Qatargate nel 2013, c’era tempo per rimediare. Del resto, anche su Germania 2006 erano girati sospetti, per non dire di Sudafrica 2010. C’erano motivi per non farli, questi Mondiali? Francamente no, e non lo dice solo l’Economist. Ma anche volendo dire di sì: a parte l’imbarazzante wokismo da salone dell’estetista di Infantino, basterebbe ricordare che tutti quelli che oggi si risciacquano nel puritanesimo calcistico sono andati a giocare in Russia, e alle Olimpiadi in Cina.

 

Siamo andati ai Mondiali nell’Argentina dei desaparecidos (tranne Cruijff: ma perché aveva paura per la famiglia). E lo scorso anno noi italiani ci siamo sbomballati mesi di retorica per i 45 anni della Coppa Davis vinta in Cile, quando giocarono una partita con la maglietta rossa, con metà dell’Italia che non voleva la spedizione nello stadio di Pinochet e l’altra metà invece sì, compresi Gianni Clerici e Berlinguer: per la sana autonomia dello sport e una briciola di realismo politico. Non si starà qui a valutare se ha ragione l’Economist quando scrive che “nella migliore delle ipotesi, le critiche occidentali alla decisione di assegnare i giochi al Qatar non riescono a distinguere tra regimi veramente ripugnanti e regimi semplicemente imperfetti. Nel peggiore dei casi, sa di cieco pregiudizio”. Non si vuole nemmeno decidere se sia vero che “il Qatar potrebbe non essere una democrazia, ma non è lo spregevole regime dispotico degli editoriali da cartone animato”. Si vuole solo notare, si parva licet e per stare allo sport italiano, che le carte in regola per sfoggiare tutta questa attitudine a ergersi paladini dei diritti e della democrazia non le ha nessuno. Adesso che tra i commentatori a schiena dritta va di moda sputazzare Stramaccioni perché allena in Qatar, andrebbe ricordato che Giovinco guadagnava 10 milioni in Arabia Saudita, che El Shaarawy è stato il più pagato italiano in Cina, che l’ex ct vincitore del Mondiale Lippi è andato poi in Cina a vincere tutto il possibile, portandosi Gilardino, per poi passare la panchina al Pallone d’oro Fabio Cannavaro. E nessuno che si sia mai strappato le vesti per gli uiguri. Persino Damiano Tommasi, oggi inclusivo sindaco del Pd a Verona, disputò campionato e Champions d’Asia in Cina, anche se poi scrisse un libro revisionista sulla sua avventura, Mal di Cina, e anche un altro ct, Donadoni, ha lavorato per la democratura di Pechino. Mentre Spalletti allenò quattro anni la squadra di Putin (Gazprom) a Pietroburgo e la Nazionale russa fu guidata anche da Fabio Capello, che almeno oggi non fa il moralista. Per non dire dell’eletta schiera degli emigrati calcistici nella Turchia di Erdogan, da una star come Andrea Pirlo all’aeroplanino Montella in giù. C’è qualcosa di male, in tutte queste carriere che sono lavoro e disincantato rapporto economico nell’ambito dello sport professionistico? No. Si può ovviamente dire di tutto contro il Qatar, che dopo alcuni anni di controverso gran pavese geopolitico-sportivo pare ora avviato al ruolo del prossimo Cattivo da mettere in quarantena. Ma le crisi di “infantinismo”, anche no.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"