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Il Foglio sportivo

Non solo ginnastica, l'infelicità di una bambino non varrà mai una medaglia

Fabio Pagliara

Lo sport agonistico ha sempre vissuto in bilico fra umanità del sacrificio e disumanità del superamento di ogni limite, soprattutto in alcune discipline; ma sentire le voci delle atlete, le testimonianze, i retroscena, è stato crudo e spiazzante. Dietro alle denunce c’è molto altro

Si legge di abusi, violenze fisiche e psicologiche, etica del sacrificio portata fino alle estreme, e gravi, conseguenze: il vaso di pandora scoperchiato nel mondo delle “farfalle” della ginnastica ritmica svela una realtà che tanti conoscevano, ma nessuno aveva il coraggio di portare alla luce. 

 

È necessario essere garantisti, perché ogni fatto andrà verificato, per evitare di rovinare reputazioni ed esistenze magari solo per la vendetta di qualcuno che non ce l’ha fatta. 

 

Possibile nessuno sapesse nulla in questo micro-cosmo che è il mondo dello sport?

 

Lo sport agonistico ha sempre vissuto in bilico fra umanità del sacrificio e disumanità del superamento di ogni limite, soprattutto in alcune discipline; ma sentire le voci delle atlete, le testimonianze, i retroscena, è stato crudo e spiazzante. 

 

Succede solo nella ritmica? Ovviamente no. Sono casi isolati? Può darsi, ma talmente eclatanti da non poter essere sconosciuti all’ambiente nel quale sono maturati. È colpa esclusivamente di allenatori e allenatrici “senza scrupoli”? No, e questo è l’aspetto sul quale occorrerebbe riflettere e approfondire. 

 

Sono tantissimi i genitori che riversano sui figli le loro aspirazioni, diventate frustrazioni; gli stessi genitori, purtroppo, che si presentano in palestra per perorare la causa del figlio o della figlia in odore di eccellenza, quelli che razionano il cibo, mettono lo studio in terzo piano, esaltano l’etica perversa del successo “a ogni costo”. Oppure quelli che rinchiudono per lunghissimi periodi in centri sportivi inadeguati i figli e le figlie poco più che adolescenti, senza preoccuparsi che le strutture abbiano mezzi e strumenti per far vivere ai ragazzi la loro età anche fuori dagli orari di allenamento.

 

In questo squallido clima di “consenso” proliferano i comportamenti deviati e gli allenatori diventano mostri, lasciando evaporare il ruolo pedagogico ed educativo che dovrebbe guidarli. E ragazzi e ragazze, soprattutto queste ultime, si annullano, nel corpo e nella mente, per rientrare in quella percentuale infinitesimale di aspiranti campioni o campionesse che riescono poi a cingere il capo di alloro.

 

Lo sport, nella sua declinazione agonistica, privato dell’unica vera ragione per la quale valga la pena fare sacrifici: la gioia, il sorriso, lo stare bene con se stessi, la felicità.

 

Certo, estremizzare il concetto o fare di comportamenti specifici paradigma di interi movimenti non serve a nessuno e non servirà a migliorare lo sport; eppure forse c’era bisogno di questo terremoto per capire quanto e come il sistema dovesse reagire e recuperare le ragioni stesse della propria esistenza, nella quale il sacrificio non può e non deve tendere al successo a ogni costo.

 

I dirigenti sportivi riscoprano, con l’aiuto delle Federazioni, la funzione e la formazione anche etica e psicologica dei tecnici, ne monitorino costantemente metodi e risultati, rendano obbligatorio il supporto psicologico e nutrizionistico delle atlete e degli atleti, senza lasciare all’incompetenza e all’improvvisazione il compito di rovinare giovani esistenze.

 

Il successo, laddove ci sia talento, arriverà lo stesso, senza condividerlo con l’anoressia, la bulimia, l’amenorrea o la depressione cronica.

 

Lo sport quello vero, dovrebbe formare gente in salute e indirizzarla verso stili di vita sani, oppure rappresentare una medicina naturale, sia preventiva che successiva.

 

E invece le degenerazioni dell’agonismo esasperato sono assimilabili ai casi più gravi di doping e andrebbero repressi, duramente, come nei casi eclatanti di atleti dopati; punendo con il massimo rigore chi ha commesso questi atti e chi li ha resi possibili e garantendo agli atleti di poterne uscire, di riscoprire la bellezza dello sport, l’estetica sana del sacrificio, l’amore per se stessi, che passa dal rispetto per il proprio corpo. L’infelicità, no, non vale una medaglia.

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