La finale di Ginnastica Ritmica delle "farfalle" alle Olimpiadi di Tokyo 2020 (Ansa) 

Il rispetto verso se stessi

Lo scandalo della ginnastica ritmica italiana e i valori dello sport che abbiamo scordato

Marco Pastonesi

Alcune atlete hanno denunciato offese e insulti, discriminazioni e umiliazionia a opera dei loro allenatori, che ora sono sospesi, mentre le accademie sono commissariate in attesa di appurare la verità. Ci siamo dimenticati che i principi sportivi, il loro senso, sono infinitamente superiori alle medaglie

Quelle offese e insultate. Quelle prese a schiaffi e parolacce. Quelle costrette a sedersi a un tavolo riservato alle ciccione. Quelle che si sono sentite umiliate. Quelle che sono state maltrattate. Quelle che si sono dichiarate abusate psicologicamente. Quelle che la notte non riuscivano a dormire per la fame. Quelle che la prima cosa che provavano entrando in palestra era il desiderio di uscirne. Quelle che hanno denunciato il lavaggio del cervello.

La ginnastica ritmica italiana – la squadra delle Farfalle, ammirate e medagliate – è coinvolta in uno scandalo: violenze, fisiche e mentali, dai tecnici alle atlete, per giorni, mesi e anni, ed emersi adesso, adesso che Martina Scarsella, Nina Corradini, Anna Basta, Giulia Galtarossa e Ilaria Barsacchi, smesso di allenarsi e gareggiare, hanno trovato il coraggio di dichiarare pubblicamente disagi, sofferenze e mortificazioni. Abbastanza per sospendere i tecnici, commissariare le accademie e avviare inchieste per conoscere la verità ed eventualmente punire i colpevoli. Con il coinvolgimento, prevedibile, delle famiglie, a volte consapevoli, a volte complici. 

È stato detto che nessuna medaglia può giustificare una violenza, che nessun obiettivo può richiedere un abuso, che nessun sogno può indurre a una prigionia. Ed è così. Lo sport, qualsiasi sport, richiede attenzione e rispetto, non solo verso regole e regolamenti, non solo verso avversari e arbitri, ma soprattutto verso se stessi. La dedizione alla preparazione, la devozione ai principi, l’osservanza dei comandamenti sono fondamentali. E più lo sport sale di livello, più è indispensabile “la vita da atleta”. Quando lo sport diventa professionistico, se non negli ingaggi, almeno nell’impegno, si va verso esagerazioni, eccessi, violazioni. Il doping, per esempio. O gli abusi, le violenze, le costrizioni.

 

Se invece di dire sport, si dice discipline sportive, è proprio perché si tratta di un “complesso di norme che regolano la vita di una collettività” e anche di un “dominio dei propri istinti, impulsi, desideri, perseguito con sforzo e sacrificio; sottomissione volontaria” (Oxford languages). Disciplina deriva da “discere”, che in latino significa imparare. Imparare a rispettare e a rispettarsi. E a farsi rispettare. Perché un limite c’è. Ed è quello umano.

Non esiste sport, anzi, disciplina sportiva, che non sia umanamente esigente. I corridori che si allenano quando fanno “la distanza”, dalla mattina alla sera, o quando fanno “i lavori” ripetendo una salita, meglio se spingendo rapporti da pianura o discesa. I pugili che saltano la corda ma anche i pasti per rientrare nei limiti del peso della categoria. I tennisti che ripetono movimenti fino all’ossessione. “Una cosa che ho imparato in 29 anni di tennis – scrive Andre Agassi con le parole di J.R. Moehringer in Open –: la vita ti getta tra i piedi qualsiasi cosa, tranne forse il lavello della cucina, e alla fine anche quello”.

 

La verità – esiste la verità?, la verità vera?, la verità giusta? – è che la disciplina è oggi indisciplinata: non si insegna più, non si impara più. Sulla strada, sui social. A casa, a scuola. In ufficio, in famiglia. Si insegna a condonare le regole, a rottamare i patti. Si propone di chiudere un occhio, di allargare la cinghia. Si confonde la libertà con il liberismo, e il liberismo con la trasgressione. Dovunque, comunque. Rimane lo sport come presidio di educazione. Porsi limiti, osservare orari, rispettare regole. Scritte e non scritte. Nello sport c’è un Var, un occhio di falco, un photofinish che sancisce, nella vita di tutti i giorni no. Come se lo sport vivesse in una bolla, un mondo ideale e puro. Finché gli interessi non cambiano prospettive e metodi.

Lo sport è infinitamente superiore, nei suoi valori, alle medaglie. Certo: le medaglie regalano fama, soldi, potere. Ma vale di più aiutare il talento di un compagno, riconoscere la superiorità di un avversario, rinunciare a un traguardo, anche se per questi atti non sono previsti ori, argenti e bronzi.

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