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Contro la Roma, Luciano Spalletti può chiudere il cerchio del suo passato

Andrea Romano

L'allenatore toscano è riuscito a portare tutte le squadre che ha guidato in Champions League: Udinese, Roma, Inter, Napoli. Ora deve fare l'ultimo passo per togliersi l'etichetta di perdente di lusso

La sineddoche si è cristallizzata all’improvviso. Una parte per il tutto, fino a quando il superfluo non ha finito per fagocitare l’essenziale. Per diverso tempo Luciano Spalletti è finito al centro di un paradosso. Uno dei migliori allenatori italiani veniva ricordato solo per cose che con il campo non avevano nulla da spartire. O quasi. Al centro della memoria collettiva è finita la paperella Biancaneve che faceva colazione con i biscotti, le galline del Cioni che avevano bisogno di mezzo chilo di granturco al giorno, la collezione di maglie dei calciatori esposte con precisone maniacale. Per anni le sue conferenze stampa sono diventate meme animati, frammenti da mandare avanti e indietro su YouTube. E allora ecco "il tacco, la punta, il numero, il titolo, il gol", le testate contro la scrivania, quel "siccome probabilmente tu sei un perdente" rivolto a un giornalista, la sbroccata al bordocampista russo che gli parlava di emozione. Tutti accessori diventati essenziali e determinanti. Tutte situazioni che a forza di essere riviste e ripetute hanno finito col perdere la loro carica di drammaticità per assumere tinte comiche. Le difficoltà nella gestione del declino di Totti (che a Roma sarebbe stata impossibile anche per Guardiola) e dell’esuberanza di Icardi hanno fatto il resto.

 

L’uomo di Certaldo è stato imprigionato nel ruolo di generatore di tempeste, ha ricordato "l’appassionato dell’infelicità" teorizzato da Cioran. Grattare sotto la superficie non interessava più a nessuno. Perché la narrazione di Luciano come miglior nemico di sé stesso era diventata ormai topos letterario. Spalletti come lo Stan Lauriel di Osvaldo Soriano, che al momento di tornare finalmente a casa dice: "Sono un uomo famoso che nessuno conosce".  Eppure la lista dei meriti del tecnico è sconfinata. Sia per i risultati ottenuti, sia per le innovazioni che ha introdotto. Spalletti è riuscito a portare tutti in Champions League: Udinese, Roma, Inter, Napoli. Con squadre che di grande, a volte, avevano solamente il nome. Con i giallorossi è andato vicino a vincere un campionato contro un’Inter infinitamente più forte. Poi, dopo essere tornato dalla Russia, periferia del calcio europeo, ha riportato i nerazzurri in Champions prima degli investimenti massicci che hanno consegnato a Antonio Conte Lukaku, Barella e Hakimi. La sua caratteristica principale è quella di riuscire a spingere i suoi giocatori oltre le loro possibilità.

 

Nella sua prima parentesi nella Capitale viene ricordato per aver schierato Perrotta come trequartista (una scelta che al momento della lettura delle formazioni assomigliava a una bestemmia urlata fra le navate di una chiesa), ma anche per aver inventato il falso nove ante litteram. È il 18 dicembre 2005. Una Roma derelitta gioca in casa della Sampdoria. L’unico centravanti a disposizione è Stefano Okaka, 16 anni e 4 mesi all’anagrafe. Luciano ha il colpo di genio: Totti unica punta nel 4-2-3-1. È una trovata che trasforma il Capitano in bomber, che mette le ali alla sua squadra. Quando tornerà a Roma, 7 anni dopo, Spalletti distillerà il talento di Nainggolan fino a renderlo purissimo. Creerà la difesa a tre e mezzo, si inventerà Perotti centravanti, darà una nuova vita a Emerson Palmieri, non più oggetto misterioso ma terzino di valore europeo, sgrezzerà Momo Salah. All’Inter prende Brozovic e lo schiera regista davanti alla difesa. Per molti è un azzardo, ma si trasformerà in intuizione geniale.

 

Ora l’uomo di Certaldo è ripartito da Napoli. Quella che doveva essere la stagione del ridimensionamento si è rivelata l’ostensione di una squadra dal talento abbacinante. I partenopei sono un’orchestra sinfonica capace di suonare punk, di srotolare una manovra veloce come mosse di karate. E adesso Spalletti torna in quella Roma che lo ha adorato e vilipeso in parti non sempre uguali per chiudere un cerchio, per staccarsi una volta per tutte dalla schiena l’etichetta di perdente di lusso. D’altra parte lo aveva detto proprio Luciano in una conferenza stampa: "Uomini forti, destini forti". Un aforisma che ora Spalletti spera di trasformare in realtà. Magari dopo essersi cucito lo scudetto sul petto. 

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