Foto Francesco Ammendola/Ufficio Stampa Quirinale, via LaPresse

il foglio sportivo

Esistono più Italie nello sport

Moris Gasparri

Che cosa c’è davvero dietro a calcio, Formula 1 e ciclismo? Dietro al triumvirato emergono nuoto e volley. Tanti risultati, poco spazio

È possibile immaginare in maniera stratificata la realtà presente dello sport italiano, per cercare attraverso questo esercizio mentale di rispondere alla domanda circa il suo stato di salute agonistico? La domanda non è oziosa, e, nella sua interezza, non è svolta con grande frequenza. Secondo meccanismi linguistici e mentali tramandati e difficilmente scalfibili, nelle retoriche dirigenziali lo sport italiano è infatti sempre e comunque in salute, anche quando non lo è affatto. Dal punto di vista politico, essendo le vittorie sportive delle meravigliose inutilità pratiche, non c’è poi il rischio che qualche commissario europeo o qualche analista finanziario possa chiederci conto del loro aumento o della loro diminuzione. Anche sul piano interno lo sport inteso come produzione di vittorie in campo internazionale sembra così poco importante che, per inserirlo in Costituzione – tentativo peraltro al momento abortito – si è dovuto ricorrere alla più generica formula “attività sportiva”, perché evidentemente “sport” di suo non è parola pregna, rimandando al tifo e allo svago da divano, mentre la sua trasformazione in senso ginnastico ha uno sfondo utilitaristico più accettabile, che odora di risparmi sanitari, quindi più in sintonia con una nazione appesa al proprio debito pubblico.

   

Ma veniamo agli “strati” della cultura sportiva italiana, un grande mescolamento in cui è possibile individuare tre categorie principali: tradizioni in declino ma ben vive nella loro forza simbolica e antropologica; tradizioni sommergenti; tradizioni emergenti. Esistono più Italie dello sport e non una sola Italia, hanno pesi economici e globali diversi, prospettive differenti, spesso anche differenti radicamenti territoriali. Proviamo ad analizzarle.

 

C’è un saggio, Sport Italia, pubblicato qualche anno dallo storico inglese Simon Martin, molto importante per comprendere cosa sia stata l’Italia nel lungo Novecento sportivo (e l’importanza è anche nella prospettiva straniera di chi questo libro lo ha scritto), che individua una “sacra trinità” dello sport azzurro: calcio, Ferrari e ciclismo. Questa trinità va intesa sia in chiave interna – gli sport maggiormente popolari, quelli che hanno rappresentato di più in termini identitari e di passione collettiva – ma anche in chiave esterna, vale a dire l’Italia come protagonista globale degli sport più globalizzati, soprattutto pensando al calcio e alla Formula 1. Chi afferma che in Italia non esista una cultura sportiva mente, magari non sapendo di mentire, ma ignorando come da questi sport, a suon di vittorie e affermazioni, si siano dipanate identità e passioni collettive, soft power e riconoscibilità globale, capacità industriali. Questa trinità soffre però i colpi del declino. Il confronto fra quello che siamo stati a livello mondiale nel XX secolo e ciò che siamo diventati in questi primi due decenni del XXI secolo è impietoso. Solo per fare tre esempi, questo autunno ci offre un incrocio tra gli affanni sportivi della Juventus e della Ferrari, l’attesa triste del Mondiale in Qatar nuovamente senza l’Italia, o la malinconia contabile del plastico del nuovo San Siro, rimpicciolito e standardizzato nella sua estetica per esigenze di risparmio dei costi, come se le grandi cattedrali sportive, sulla scia di quelle religiose del Medioevo, non servissero al contrario a comunicare forza collettiva, a esprimere la capacità di immaginare qualcosa che superi la nostalgia del passato con l’evocazione di un futuro importante.

 

Come va letto il declino? Non è la dissoluzione apocalittica, a non trionfare più in campo internazionale ci si abitua, magari con un po’ di rassegnazione, anche a rischio di perdere un po’ di interesse nelle giovani generazioni, e c’è sempre l’alternativa a un certo punto della stagione di sognare i sogni degli altri. Il binomio calcio-Ferrari resta comunque centrale nell’antropologia italiana (anche perché, con buona pace degli esperti di marketing, i cinquantenni, sessantenni, settantenni, ottantenni esistono ancora e tifano ancora), e il principio-speranza del ritorno alle grandi vittorie è sempre una scintilla viva, come dimostrano i grandi ascolti di inizio anno per la partenza vincente della Ferrari o le speranze suscitate dall’inatteso cammino europeo del Napoli.

 

Alla voce tradizioni sommergenti va messo invece il ciclismo, il terzo sport della trinità sopra evocata, ormai avviato verso un destino museale e memorialistico. Non è un’affermazione ingenerosa, ma la presa d’atto realistica, anche alla luce della rarefazione italiana agli alti livelli del circuito professionistico o all’illanguidirsi dei bacini di reclutamento del talento giovanile, di quanto la grandezza cosmica degli ottenimenti passati, simboleggiata dal culto dei Coppi, dei Bartali e dei Pantani, superi le possibilità del presente di potervi corrispondere anche in minima parte, in perfetto parallelo con quanto accaduto a un altro sport che nel Novecento ha recitato un ruolo da protagonista nella cultura sportiva italiana e oggi vive nel dimenticatoio, la boxe. Attenzione, anche qui il declino non va immaginato come un buco nero che inghiotte tutto, e nemmeno come una legge di natura pienamente irreversibile. Resterà sempre un Ganna da applaudire per il suo fantastico Record dell’Ora, o un Nibali vincente al Tour, e chissà che il fermento femminile in entrambe queste discipline non possa ravvivare nei prossimi decenni queste tradizioni. Tuttavia, il destino appare abbastanza segnato.

 

Veniamo alle tradizioni sportive emergenti, poco o per nulla presenti nel lungo Novecento in termini di grandi vittorie ripetute nel tempo, protagoniste invece nel nuovo secolo. È un universo che accoglie le due formidabili storie di successo del 2022 dello sport italiano: da un lato il nuoto, movimento capace di una maturità agonistica strabiliante, i cui successi non dipendono più soltanto da singoli casi genetici e di motivazione straordinaria, ma da una cultura comune dell’emulazione costruita nel tempo. Dall’altro il volley, con un’egemonia sportiva compiuta a ogni livello, giovanile e senior, e in entrambi i generi, vero capolavoro di programmazione sotto la regia di Julio Velasco.

   

Cosa distanzia questa Italia da quella di cui abbiamo parlato prima? Una grande trasformazione tecnologica e di civiltà sportiva. Quando lo sport non faceva ancora parte dei cosiddetti “mercati dell’attenzione”, esisteva uno spazio di orizzontalità mediato dalla tv pubblica e dai quotidiani sportivi in cui i successi del calcio, del ciclismo, dei motori e degli altri sport olimpici potevano disporsi in un orizzonte magari non perfettamente uguale, ma sicuramente democratico. C’era partecipazione di popolo distribuita ai successi e alle vittorie. Nell’era attuale degli sport-commodity e dei contenuti a pagamento si è passati invece a un regime aristocratico in cui gli sport egemoni che ogni giorno propongono spettacoli e chiacchiere sugli spettacoli si mangiano tutti gli altri, soprattutto quelli olimpici, incatenati alla dimensione greca della ricorrenza ciclica e dilatata dei propri appuntamenti principali, o quelli non inseriti nei grandi circuiti mediatici globali e magari legati a un tessuto provinciale e di contado, come il volley. Nonostante il suo declino agonistico internazionale, il calcio in Italia ha molta più attenzione e conta dal punto di vista mediatico enormemente più di trent’anni fa, i tre quotidiani sportivi sono ormai solo calcistici, la galassia social prolifera di nuovi luoghi della chiacchiera pallonara, e il resto lo fanno scommesse e Fantacalcio. Per quanto ci si possa sforzare di costruire racconti e attenzione attorno ai personaggi di successo degli altri sport, per quanto il Tg1 e Mattarella possano cercare di costruire una pedagogia nazionale sui bravi ragazzi vincenti, nella visione cinica dell’industria calcistica i Michieletto e le Quadarella sono al più nomi da invitare allo stadio per le photo-opportunity assieme a influencer e youtuber prima delle grandi partite, protagonisti di sport che possono vivere ormai soltanto nella coda lunga delle nicchie, dei siti specializzati, delle pagine specializzate o di qualche finestra sui media generalisti, ma non in quella dell’attenzione nazional-popolare prolungata. È una trasformazione evocata qualche giorno fa in maniera critica anche da Maurizio Sarri, di cui l’Italia è investita in maniera più forte perché il nostro codice genetico è profondamente polisportivo. Trasformazione irreversibile?

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