facce dispari

Federico Tisi, la lotta come antidoto ai bulli da TikTok

Francesco Palmieri

Il maestro, pioniere della disciplina jiu jitsu in Italia, ci spiega cosa tiene insieme cultura e arte del combattimento. "Conor McGregor? Vuoto come un neomelodico che esalta la camorra"
 

Fosse vivo, Jimmy Cannon spiegherebbe come siamo passati nella rappresentazione del combattimento dalla spettacolarità di Muhammad Ali ai teatrini TikTok di Conor McGregor. Anche se nessuno glielo chiedesse, fingerebbe di chiarirlo e gli crederemmo (Nobody Asked Me, But… era la sua straordinaria rubrica). Ma il combattimento non è solo dei supercampioni sotto i riflettori nei ring o nelle gabbie né sulle fioche materassine dei lottatori. Neanche è solo quello che s’affronta per strada con violenza senza regole né s’esaurisce nel confronto fisico. Alla fin fine, scrive Antonio Franchini, il combattimento è “parte dell’esperienza umana che sicuramente ha aspetti oscuri e rimossi, ma proprio per questo meritevoli di essere indagati e approfonditi”.

Quanto si è allenato, altrettanto ci ha riflettuto il ‘mestre’ Federico Tisi da Suzzara provincia di Mantova ma giramondo per scelta, collocazione attuale Milano, 48 anni di cui 40 spesi nelle arti marziali con destinazione brazilian jiu jitsu. Ne fu pioniere in Italia e primo agonista italiano nei tornei internazionali. Chi pensa che qui si parli di strangolamenti e cazzotti pazienti qualche rigo, perché Tisi docet che sudare in palestra serve pure a gestire i rapporti coi colleghi antipatici o a “trovare finalmente il coraggio di chiedere a quella ragazza o quel ragazzo che ritenete speciale di uscire a cena con voi”. Lo afferma nel libro ‘La forza tranquilla – Lezioni sul combattere’, uscito ad aprile scorso per Giunti. Lo ribadisce adesso.

 

Cos’è il combattimento?

In ogni società ci sono schemi conflittuali. Noi ci addestriamo al confronto non solo fisico ma psicologico. Certe arti tradizionali peccano di astrattezza, eludendo lo stress dello scontro reale. È come usare una racchetta da tennis senza pallina. O sognare che Mulan sbaraglia un ultrà inviperito.

Non crede che i corsi di difesa personale siano utili a tutti?

Possono sviluppare l’attitudine preventiva a rilevare situazioni pericolose. Ma combattere richiede un apprendimento che non conosce scorciatoie. Attenzione alle false sicurezze: chi si esercita contro un’arma di gomma e un compagno compiacente sappia che, di fronte a una lama, gli conviene fuggire.

Al di là delle statistiche, certi video sui social danno la percezione di una violenza diffusa.

Sono da un lato utili perché mostrano cosa accade davvero; dall’altro pericolosi perché possono anestetizzare la gravità degli episodi. Si finisce per ritenerli consueti e accettare la violenza come fenomeno integrante della società. Col rischio di emulazione.

Vedi il bullismo.

I ragazzi vivono mediati dai dispositivi digitali. Un tempo per chiedere a una tipa di ballare ti prendevi il rischio del ‘no’ davanti a tutti. Era un rituale di passaggio che oggi si elude con un messaggio su Instagram. Si fa più fatica ad affrontare situazioni reali ma quelle virtuali possono essere peggiori: prima, se venivi spintonato dal prepotente davanti agli amici del cortile, restavi mortificato per tre giorni. Ora ti riprendono e postano la scena su internet, dove sarà vista da tantissima gente magari per anni: una violenza psicologica assai più distruttiva.

Antidoti?

La mera protezione della vittima la rende solo più debole e la conferma nell’incapacità di difendersi. Bisogna addestrare le persone a credere in se stesse. Non parlo solo dell’aspetto fisico ma di fiducia personale, di educazione, anche per i bulli che spesso replicano atteggiamenti subiti a casa loro.

I famigerati fratelli Bianchi dimostrano che dalle palestre non sempre si esce migliori.

Se l’efferatezza di due criminali di provincia va sui giornali, passano sotto i radar milioni di persone che in palestra hanno risolto i problemi conseguendo un’esistenza più equilibrata. La differenza la fa l’insegnante: deve essere un educatore. E poiché spesso le scuole non funzionano, e i genitori sono assenti, non possiamo pure riempire le palestre di imbecilli.

Gliene sono capitati?

Sulle dita di una mano. Chi viene per diventare McGregor trova un ambiente opposto. O cambia o sparisce.

McGregor è il fighter che fa presa. C’era una volta la spavalderia di Ali, oggi c’è lui.

È il classico ignorante che ha fatto i soldi e se la spassa, lo status symbol di chi ha per riferimento i trapper che sfoggiano lusso e coca facendo i bad boys. Col suo istrionismo Ali amplificava messaggi di tipo nobile. Questi non hanno niente: scatole vuote impacchettate in un mondo dove la confezione conta più del contenuto e lo slogan più del discorso. Tra McGregor e un neomelodico che esalta la camorra non c’è differenza: si vestono, si pettinano, si comportano uguale.

Come può una seria pratica del combattimento attrarre di più?

Se una persona capisce che la vita non è cinema e la realtà non è Twitter: se affronta qualcuno senza rispettarlo non gli sospendono l’account ma prende una sberla. O all’opposto se capisce che pacifista significa una cosa e inerme un’altra. Non basta negare la violenza per abolirla. Se gli ucraini non si fossero addestrati, quando i russi li hanno invasi sarebbero stati schiacciati subito. Invece i nostri schemi educano a credere che basti sventolare una bandiera della pace per sancirla. Ecco un aneddoto giapponese: “L’allievo chiese al Maestro: ‘Tu mi insegni a combattere, ma mi parli sempre di pace. Come puoi conciliare le due cose?’. Il Maestro rispose: ‘È meglio un guerriero in giardino che un giardiniere in guerra’”.