AP Photo/Thibault Camus 

Uscire a rivedere il sole. Il Tour de France di Jungels e Pinot

Giovanni Battistuzzi

Al Tour de France domenica due storie parallele si sono inseguite lungo il Pas de Morgins: due storie di nubi neri e pioggia che sembrava non dover smettere mai

Mica vero che dopo la tempesta arriva sempre il sole. Ogni tanto dopo la tempesta c'è altra pioggia e altra pioggia ancora, che quasi ci si convince che sì, può piovere per sempre e non se ne uscirà mai, se non fradici e con le ossa gonfie d'umidità. Il sole però arriva, quasi sempre arriva. Il sole può arrivare ovunque, quando però torna a splendere alle Portes du Soleil, scalda di più.

È un'invenzione Les Portes du Soleil, non esisteva fino agli anni Sessanta del Novecento. Le montagne erano là, al solito posto di sempre, e pure i paesetti, meno grandi, ugualmente attraenti, certamente meno ricchi. Ognuno faceva per sé, perché in montagna, dicono, ognuno fa sempre per sé. Che diamine di persone hanno in mente quelli di città quando parlano di quelli di montagna non è chiaro. Quel che è chiaro è che quelli di montagna fanno mai davvero per sé, che sono mica tutti eremiti o solitari ricercatori mistici che rifiutano la civiltà metropolitana. Spesso in montagna ci si nasce e si cerca di viverci e non di sopravviverci. Lassù, tra Svizzera e Francia, ci vivono fregandosene pure delle frontiere, che tanto sono Les Portes du Soleil e quindi territorio ai confini del sole, certamente ultraterrestre.

A Les Portes du Soleil, domenica al Tour de France, il sole splendeva, o meglio batteva, per tutti e dalla mattina. Eppure durante la nona tappa della Grande Boucle, nonostante il meteo continuasse ad assestarsi sul sereno e le nubi in cielo erano poche e veloci nel transito, le nubi c'erano, plumbee e gravide di pioggia sulla fuga che di forza e, forse, impellenza s'era costruita uno spazio di vita alla faccia delle velleità del gruppo. Quelle nubi continuavano a grondare secchiate d'acqua e incertezza sul capo e sulla schiena di Bob Jungels. E quando è così, quando si è fradici sino agli organi interni, l'unico modo per scansare l'umidità che ti attanaglia è quello di aggrapparsi alla speranza che correndo forte, più forte di tutti gli altri e pure del vento e del cielo, si possa trovare salvezza.

Bob Jungels ha provato a strizzare le nubi sul Col de la Croix, che non poteva essere che il luogo idoneo per togliersi dalle spalle la croce che si sentiva di avere addosso. Un croce di dubbi e di pensieri neri come il cielo che vedeva solo lui. Aveva forse tutta un'altra idea di sé, Bob Jungels. Un'idea che non era poi dissimile da quella che aveva gli altri di lui. Perché di una cosa era sicuri i più, soprattutto i suoi compaesani, lassù in Lussemburgo: che non sarebbe passato troppo tempo per assistere a una vittoria di una nuova vittoria di lussemburghese al Tour de France, non almeno oltre dieci anni. Ne sono passati undici dal 21 luglio del 2011, dal successo di Andy Schleck a Serre-Chevalier, sul Galibier.

Non doveva andare così, dicevano in Lussemburgo e non solo in Lussemburgo. Perché Bob Jungels era passato al professionismo nel 2013 e se di una cosa erano certi in Lussemburgo e non solo in Lussemburgo era che c'erano in giro pochi corridori più completi di Bob Jungels, uno che è sempre andato forte ovunque: dalla cronometro alla salita passando per le pietre. Uno che una Liegi-Bastogne-Liegi l'ha vinta e non per caso.

Non è andata proprio come erano convinti in Lussemburgo e non solo in Lussemburgo. A volte mentre si pedala è la bicicletta che decide dove andare, è lei che guida e chi pedala non può fare altro che seguire il percorso che ha scelto.

La bicicletta di Bob Jungels aveva a un certo punto, verso la metà del 2019, deciso che era ora di finirla con le imposizioni, con tutti quei progetti altrui che voleva trasformare il corridore lussemburghese in qualcosa che non era. S'era opposta a quella storia che continuavano a raccontare sul suo conto, sulla scelta che doveva fare tra grandi corse a tappe o classiche, sulla necessità di seguire quell'ossessione collettiva, parecchio malata, che era il far classifica. Lei, la bicicletta, aveva capito prima di tutti che l'andare forte ovunque non era sinonimo di andare più forte degli altri. Gli uomini però, è evidente, a certe evidenze ci arrivano in ritardo. Lei, la bicicletta, sapeva che c'era un unico modo adatto a Bob Jungels ed era quello di correre libero, senza pensieri, godersi il ciclismo giorno per giorno, che quando andava così era sempre andata bene. Come quel giorno del 2018 alla Liegi-Bastogne-Liegi. Alla Doyenne c'era andato per far da spalla a Julian Alaphilippe e a Philippe Gilbert. Era finita che ad Ans c'era arrivato da solo e ben prima di tutti gli altri.

La bicicletta ha trascinato Bob Jungels in una bufera lunga tre anni, aveva provato a deviare la rotta del lussemburghese, ma non c'era riuscita, le resistenze erano troppe. E non erano solo i problemi fisici, quella endofibrosi arteriosa che l'aveva frenato e bloccato un anno fa, e chissà da quanto se le portava dietro.

Aveva detto che non si sentiva più lui, che c'era qualcosa che non andava, che aveva perso lo spirito di un tempo, di aver perduto pure le parole, che era cresciuti i silenzi. Va spesso così quando le aspettative, soprattutto quelle altrui, diventano prigione.

Di questo ne sa qualcosa anche Thibaut Pinot. Pure lui ha vissuto e ancora sta vivendo questa situazione sospesa. Domenica, verso Les Portes du Soleil, aveva anche lui sperato che il sole potesse dissipare le sue nubi. Sul Pas de Morgins s'era messo all'inseguimento di Bob Jungels, aveva recuperato secondi e minuti e aveva quasi intravisto la fine della pioggia, i primi raggi tiepidi del sole. Sono durati un attimo. Non abbastanza. La sua azione è rimbalzata sul pianoro che accompagnava i corridori verso la cima e non sono bastati neppure i novecento metri finali per raggiungere il passo per correggere il tiro. Il sole, il suo sole, è tornato a coprirsi proprio in quel luogo che dice di essere le porte del sole, quel luogo che è sempre esistito, ma che ha iniziato a esistere davvero sulle mappe solo sessant'anni fa. Le nubi sul cielo di Pinot però sono meno nere, meno opprimenti e viene da sperare che arrivi finalmente quel colpo di vento che le spazzi via, se non definitivamente, almeno per un po'.

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