Foto EPA/NICOLAS BOUVY

Il Foglio sportivo

Tutte le Alpi del Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Le prime salite affrontate dalla Grande Boucle furono i Vogsi. Quest'anno le montagne al confine con l'Italia tireranno la voltata ai Pirenei, cime assassine per Octave Lapize

A dover, voler, scrivere un abecedario o un sillabario del ciclismo, o nel piccolo – che è comunque grande, enorme, sterminato – del Tour de France, converrebbe partire dalla Z per poi risalire piano piano l’alfabeto, fino alla A. Sarebbe un buon modo, l’unico, per lasciare in fondo a tutto le Alpi, per gustarsele per ultime, che altrimenti a seguir l’alfabeto verrebbero per prime e invece prime non furono mai. Perché quando il Tour de France iniziò a inserire le salite, quelle lunghe, che duravano chilometri e chilometri, iniziò dai Vosgi, dal Ballon d’Alsace: terza edizione, anno del Signore 1905. Se li è mai filati nessuno i Vosgi per decenni e decenni, perché sono, almeno per immaginario a pedali serie ciclistica parecchio inferiore. Chi disegnava il Tour li lasciava lì, al confine tra Francia, Svizzera e Germania, in quella terra di nessuno che tutti volevano, perché ci passa il Reno. Zona di morte, diceva Henri Desgrange, ma dopo la Grande guerra. Nessuno vuole ricordare le zone di morte, insisteva, salvo poi portare il Tour a Strasburgo alla prima occasione utile, perché il ciclismo ha a che fare con la memoria, pure con quella dolente e luttuosa. I Vosgi però li lasciò fuori, che se molto era stato ricostruito, o era in procinto di esserlo, quella catena montuosa no, portava i segni ancora dell’orrore. Ora è tutto diverso. Un secolo cancella parecchio e i Vosgi sono tornati appetibili, soprattutto perché le comunità locali sono danarose e hanno argomenti buoni, con parecchi zero, per convincere gli organizzatori a far passare di là il Tour, magari in cima La Planche des Belles Filles, o sulla Super Planche, che è la Planche tradizionale, ma con un paio di chilometri in più, e tutti verticali. C’è finito pure quest’anno il Tour lassù e lo spettacolo, al solito c’è stato, ristretto, ma gradevole.

 

Le Alpi sono arrivate dopo, anzi per ultime. E per colpa dell’Isère, il fiume. Perché, a fare i pignoli, e molti storici del ciclismo lo sono, giustamente, il Col de Porte, inserito per la prima volta nel percorso della quinta tappa del Tour del 1907, sta a occidente del fiume Isère, e a occidente del fiume Isère, a nord di Grenoble, ci sono le montagne della Chartreuse, che non sono Alpi, ma Prealpi.

 

Per questo servirebbe partire dalla Z e risalire verso la A. Perché Peyresourde, Aspin, Tourmalet, Aubisque, praticamente il meglio dei Pirenei, vennero affrontati dai corridori un anno prima di Aravis, Télégraphe, Lautaret e Galibier: 1910 contro 1911. Un ritardo che cambiò la storia di questo sport. Perché fu sul Col du Tourmalet che Octave Lapize gridò agli organizzatori: “Vous êtes des assassins! Oui, des assassins!”, mica sulle Alpi. Avrebbe potuto farlo sul Galibier o sul Lautaret. E sarebbe cambiato tutto, per mito e storia. Non è andata così: le cime assassine sono i Pirenei, mentre le Alpi godono ancora di una leggendaria severa dolcezza. Sarebbe stato uguale per tutto il resto, che la strada sale ovunque, e tanto e a lungo.

 

Le Alpi è meglio lasciarle per ultime e magari nominare i Pirenei APirenei, così da leggere tutto il resto e concedersi il finale migliore, quello montano.
Ma prima i Pirenei, perché spietati, cattivi, crudeli e a volte dannati. Come quando sull’Aubisque nel 1921, a bordo strada, il belga Louis Hueghem urlava di aver perso l’uso degli occhi. O quando nel 1927, sul Puymorens, il normanno Paul Duboc, in una giornata di caldo opprimente, scese di bicicletta, si trascinò verso un laghetto e svenne. Lo ritrovarono dopo qualche ora. Lo portarono via in macchina mentre sproloquiava di draghi e api assassine. Le anfetamine regalano a volte viaggi spaventosi.

 

I Pirenei sono voli, e non solo pindarici. Voli che interrompono un sogno. Come quando nel 1971 Luis Ocaña, giù dal Col de Menté, cadde, si rialzò e venne centrato in pieno da Joop Zoetemelk: era il maglia gialla lo spagnolo e a quel Tour stava battendo, e alla grande, il più forte, Eddy Merckx. Voli all’ingiù nel nulla. Come quando Wim van Est al Tour del 1951 decise che avrebbe fatto di tutto per difendere la maglia gialla che indossava e allora si buttò giù dall’Aubisque deciso a rischiare tutto il rischiabile e finì per superare un parapetto e volare per ottanta metri giù dalla montagna. Lo trovarono con un po’ di ossa rotte, ma vivo: era atterrato, per fortuna in una pozza di fango. Non andò altrettanto bene a Fabio Casartelli nel 1995. L’italiano cadde nella discesa del Portet d’Aspet. Batté la testa su di un paracarro e lì finì la sua esistenza.

 

Si vola anche sulle Alpi. Joseba Beloki, scendendo dal Col de Manse, ci lasciò un femore e la possibilità di battagliare con Lance Armstrong. Non è il solo, non sarà l’ultimo. Le bici sono un flusso veloce, stabile, ma incerto. E prima o poi l’asfalto lo si tocca, lo toccano tutti.

 

Sono voli a pedali, rivoluzioni ciclistiche, ma adorabili come i prati verdi e i boschi delle Alpi francesi, quelle enormi montagne che si levano sino a solleticare il cielo e che a volte nel cielo, o meglio nelle nubi, si confondono e dalle quali magari escono, come fulmini e luci abbaglianti, minuscoli esseri danzanti sulle pedivelle che abbattono, pedalata dopo pedalata, golem teutonici che sembravano imbattibili.

 

“Dovrebbero essere sempre tenute alla fine le Alpi. Sono il miglior finale possibile di un Tour. I Pirenei sono severi e durissimi. Le Alpi pure, ma al contrario dei Pirenei hanno panorami paradisiaci”. Disse questo Joop Zoetemelk.

 

Il paradiso quest’anno anticiperà l’inferno. La maestosità delle Alpi accoglierà i corridori prima dell’aspra meraviglia dei Pirenei.

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