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L'apparizione di Tammy Abraham

Andrea Romano

L'attaccante della Roma si colloca alla fine del percorso evolutivo che ha interessato i centravanti moderni. La sua ascesa è stata una questione di tecnica di base, certo, ma soprattutto di testa

La scena contiene un elemento vagamente surreale. In mezzo al campo un uomo in maglia rossa si sbraccia per richiamare l’attenzione della panchina. Mancano solo nove minuti alla fine della semifinale di ritorno di Conference League contro il Leicester, ma lui non ce la fa più. Ha bisogno di uscire, ha paura di infortunarsi. Pochi metri più in là José Mourinho osserva tutto. E poi si gira dall’altra parte. Finge di non vedere, di essere assorto nei suoi pensieri. Perché in quel momento potrebbe sostituire chiunque nella sua squadra. Tranne il suo centravanti. È un’immagine che racconta alla perfezione la centralità di Tammy Abraham in questa Roma. Ancora più del gol con cui ha regalato ai giallorossi la finale della neonata competizione europea. Ancora più degli altri 24 messi a segno in stagione. In questa sua prima annata in Italia l’attaccante inglese ha dimostrato di essere sovradimensionato rispetto all’effettivo livello della Roma (e della Serie A). A vederlo giocare si ha come l’impressione di trovarsi di fronte a due attaccanti diversi che convivono lo stesso corpo. Perché Abraham si colloca alla fine del percorso evolutivo che ha interessato i centravanti moderni. Scatta sul filo del fuorigioco, attacca la profondità, è letale quando riesce ad avere campo davanti a sé. Ma nel corso della stessa partita riesce a liberarsi nello stretto, a saltare l’uomo, a occupare spazio nell’area di rigore, a finalizzare l’azione. Tutto e il suo contrario. Spesso nell’arco di pochi secondi. L’inglese è perfetto per srotolare la ripartenza. Ma è anche efficace contro le difese schierate, contro i pullman parcheggiati davanti all’area di rigore. Qualcosa di impensabile per un attaccante che fino a 16 anni non giocava nemmeno a tempo pieno. Studiava alla Pimlico Academy di Westminster, si allenava due volte a settimana e poi giocava una partita nel weekend. E basta. Un calciatore part time che sgomitava contro coetanei iscritti a tempo pieno alle giovanili del Chelsea.

 

La sua ascesa è stata una questione di tecnica di base, certo, ma soprattutto di testa. Abraham è il rovesciamento della frase di Ennio Flaiano secondo cui il "sognatore è un uomo con i piedi ben piantati sulle nuvole". La sua ambizione è mossa da una fiducia sconfinata, ma realistica, nei propri mezzi e nelle proprie possibilità di crescita. Un calciatore che sembra essersi forgiato più sui manuali di training autogeno che nel mito di Drogba. A ogni intervista rilascia frasi (auto)motivazionali. Cose tipo: "Voglio essere tra i migliori attaccanti del mondo. Questo è il mio obiettivo e non mi fermerò finché non lo avrò raggiunto". E ancora: "Ho molta fiducia in me stesso e so di cosa sono capace. Non importa dove mi trovo, so che devo continuare a fare del mio meglio".

 

Come Gondrano, il cavallo di Animal Farm, Abraham sposta l’asticella sempre un centimetro più in là. L’obiettivo deve essere raggiunto a tutti i costi, al di là dello sforzo che richiede. È stato così ai tempi dei prestiti in Championship, quando ha segnato 23 reti con il Bristol City e 26 con l’Aston Villa. Ed è stato così anche quando le cose sono andate meno bene, allo Swansea e poi al Chelsea. Nella prima stagione da titolare con i blues ha segnato 15 reti. Poi la storia è cambiata.

 

A gennaio dello scorso anno ha segnato una tripletta nella sfida di FA Cup contro il Luton. Solo che Lampard è stato sostituito da Tuchel e per l’attaccante è iniziata una camminata sulla collina del Golgota. Sette presenze, appena tre da titolare. L’arrivo di Lukaku al Chelsea lo ha trasformato in esubero. L’Arsenal doveva essere il suo nuovo inizio, almeno fino a quando il telefono non si è messo a squillare. "Sono José Mourinho - ha detto al voce dall’altro capo della cornetta - Vuoi goderti un po' di sole o rimanere sotto la pioggia?". È una battuta sul clima che diventa soprattutto una metafora. Abraham a Roma ha trovato davvero il suo posto al sole. È diventato l’uomo più prezioso di una squadra modesta, con un gioco non spumeggiante ma efficace. Una punta capace di giocare in molti modi diversi ma, soprattutto, di non far rimpiangere Edin Dzeko. Il Chelsea ha mantenuto su di lui il diritto di recompra. Ma la Roma spera di trasformare quel centravanti moderno nel suo campione di domani. O magari di vincere almeno un titolo prima di separarsi.