Ottanta volte Michele Dancelli

Gino Cervi

"Se avessi avuto la testa del Felice, non mi avrebbe battuto nessuno", ci dice l'ex corridore. "Se c’era però qualcosa che non mi andava, io non stavo mica zitto. Dicevo sempre la mia, anche a costo di farmi delle inimicizie… Sono fatto così. Ma non ho rimpianti"

L’anno scorso è toccato a Italo Zilioli, due anni fa Franco Bitossi, l’anno prossimo sarà la volta di Gianni Motta. Oggi, 8 maggio a compiere 80 anni – bel numero tondo, che quasi ricorda la silhouette di una bici da corsa –  è Michele Dancelli. Chi si è affacciato al ciclismo sul finire degli anni Sessanta, come chi scrive, e ne ha ricevuto un indelebile imprinting, non può che amare la loro generazione di corridori. Sarà senza dubbio una questione sentimentale: sono i ciclisti che oggi teniamo nel cuore perché in quegli anni li tenevamo in tasca sotto forma di biglia colorata, la plastica trasparente della semisfera sempre più opacizzata per l’usura dei cricchi sulla sabbia, tanto da sfumare i tratti fisiognomici dei tondini delle foto: Zilioli e la maglia biancorossa della Faemino, Bitossi con la blu della Filotex… e Michelino Dancelli, con quella, inconfondibile, arancione (anzi, color mattone) e blu della Molteni. C’è però anche un aspetto più prettamente tecnico. A dare quel gusto di avventura e di imprevisto alle trame del ciclismo a cui siamo stati “educati” erano proprio loro. Certo, c’erano i fenomeni come Eddy Merckx, su tutti, e Felice Gimondi, che vincevano Giri e Tour e grandi classiche, e che davano ai tifosi le rassicuranti certezze dei fuoriclasse che non deludono (quasi) mai. Ma il romanzo di quel ciclismo sarebbe stato infinitamente meno appassionante e più scontato senza il contributo dei campioni fuori dal coro, capaci di tutto, grandi imprese e improvvise défaillances. Gli “irregolari”, appunto.

 

"Se avessi avuto la testa del Felice, non mi avrebbe battuto nessuno", dice Michele Dancelli, che risponde al telefono dalla sua casa di Castenedolo, alle porte di Brescia, dove ha sempre vissuto, a parte una parentesi, anche quella un po’ romanzesca, a Cuba, negli anni Novanta. Dancelli ha un archivio in testa. Gli piace ricordare i suoi anni avventurosi in sella alla bicicletta, quando il suo modo di correre “alla garibaldina” conquistava il cuore dei tifosi (e anche di qualche tifosa forse di troppo). Ma non si dimentica da dove è partito e della strada della vita, che per lui partì subito in salita: "Non ho conosciuto mio padre, morto per una polmonite quando avevo quattordici mesi. Era il settembre ‘43, piena guerra e io ero l’ultimo di sette fratelli. A dire il vero erano quasi tutte sorelle. Unici maschi io e Narciso, il primogenito, che aveva solo quattordici anni. A badare a tutti noi rimase mia mamma, Teresa. Con l’aiuto dello zio Arturo, che aveva una salumeria: la mamma lavorava nella sua bottega anche quattordici ore al giorno. Appena finite le elementari – che ho fatto un po’ da birichino: mi hanno bocciato due volte –  sono andato a lavorare: manovale, qui a Castenedolo. Portavo secchi di malta. C’era da spaccarsi la schiena".

 

Erano gli anni della ricostruzione e il lavoro da muratore non mancava.

 

"Quando mi diedero il primo stipendio ero felice. 21.000 lire. Mia mamma ce ne mise altre 1.000 e mi comprai la mia prima bicicletta: una Condor, sottomarca della Bianchi, di colore azzurro. Bici sportiva, col cambio. Grazie a quella potei andare a lavorare a Brescia, nel cantiere dove stavano costruendo i Magazzini Generali".

 

Michele in bici si diverte. E scopre di andare forte. Nelle pause di lavoro si cimenta con i colleghi più giovani in qualche sfida a chi arriva primo. Sono gli anni in cui il ciclismo contagia la passione popolare. "Quando tornavo da scuola mi fermavo sempre davanti alla bottega del Bianchini, un po’ tabaccaio, un po’ fruttivendolo. Al pomeriggio metteva fuori la lavagnetta con l’ordine d’arrivo delle tappe del Giro. Sognavo Coppi, anche se poi, negli anni, mi sono fatto l’idea che Bartali era più forte…".

 

La passione e il sogno diventarono nel giro di pochi anni realtà. Una realtà concreta, un’occasione di lavoro. Grazie anche al cugino, Franco Novelli, all’epoca buon dilettante del Pedale Bresciano, Michele inizia a correre per davvero nel 1958 con la maglia della Audaces Nave, categoria Esordienti. La mamma non approva. Michele però è testardo e dimostra di saperci fare, anche se le vittorie stentavano ad arrivare. Poi nel 1961 la svolta: la vittoria ai Campionati italiani CSI, che all’epoca valeva come un titolo nazionale dilettanti. L’anno dopo, il grande passo: lascia il lavoro, per dedicarsi interamente alle corse da dilettante. "Dissi a mia mamma, che non ne voleva sapere: fammi provare almeno un anno, vedrai che ce la faccio e se passo professionista, con i soldi del primo contratto, ti compro la casa…".

 

In effetti, il 1962 da ragione a Michele: vince dieci corse e riconquista il titolo italiano di categoria.

 

L’anno dopo, firma per la Molteni di Giorgio Albani, dando inizio a una carriera coi fiocchi. Dodici anni da professionista, Molteni, Vittadello, Pepsi-Cola, ancora Molteni, e poi Scic e Dreher, per un totale 54 vittorie, molte delle quali entusiasmanti, attaccando da lontano o in solitaria. 9 partecipazioni al Giro con ben 11 vittorie di tappa, a cui si aggiungono una tappa all’unico Tour disputato nel 1969, due successi ai Campionati italiani (1965 e 1966), vittorie sparse e ripetute tra Giro dell’Appennino, Giro del Veneto, Giro del Lazio, Giro dell’Emilia, Coppa Placci, Gran Premio Industria e Commercio e Trofeo Laigueglia. E poi due grandi classiche: Freccia Vallone del 1966 e, su tutte, la Milano-Sanremo del 1970, che vede finalmente tornare al successo un italiano dopo diciassette anni.

 

"Piangevano tutti, all’arrivo. El sciur Pietro Molteni, sull’ammiraglia. E piangeva Albani. E l’Ernesto Colnago che ha seguito tutta la fuga mezzo fuori dal finestrino con una bici di scorta in spalla, pronto a intervenire nel caso di incidente o foratura, un braccio anchilosato e l’altro aperto in segno di vittoria. Quando al traguardo ho visto che piangevano anche i carabinieri, allora ho pianto anch’io. Di commozione, certo. Ma anche di rabbia…".

 

Di rabbia perché Dancelli, nonostante le molte vittorie, e di prestigio, non ha mai goduto di grande considerazione presso la stampa. Tra le lacrime, lo disse anche lui, quel giorno a botta calda sul traguardo di via Roma, ai microfoni del telecronisti. "È vero, non mi calcolavano un campione, ma quel giorno ho dimostrato a tutti che lo ero anch’io!".

 

Lui, di calcoli, nella vita, ne ha fatti ben pochi. Quanto a essere un campione, non lo è stato certo di diplomazia: "Eh sì, c’ho sempre avuto quel difetto lì. Che poi qualcuno mi dice che è anche un pregio. Se c’era però qualcosa che non mi andava, io non stavo mica zitto. Dicevo sempre la mia, anche a costo di farmi delle inimicizie… Sono fatto così. Ma non ho rimpianti. Anzi no, uno ce l’ho…".

 

Il 1970 è il migliore della sua carriera. Oltre alla Sanremo, vince quattro tappe al Giro e il Giro del Lazio. La stagione seguente inizia sotto i migliori auspici, con le vittorie al Gran Prix de Saint-Raphaël e in una tappa del Giro di Sardegna, ma mentre sta correndo da protagonista la Tirreno-Adriatico s’infortuna: cade pesantemente su un fianco, ma si rialza e arriva al traguardo. Scoprirà solo a sera, in ospedale, di aver fatto 15 km con una frattura composta alla testa del femore. La diagnosi dice 50 giorni di assoluta immobilità. Il gesso lo tiene bloccato a letto: "Ma io a letto non ci volevo stare. Dopo un mese mi sono tolto via tutto e ho ricominciato a pedalare. Non volevo rischiare di perdere il Giro. Quando sono andato dal medico per una visita di controllo, mi ha detto: “Lei è matto!”. Aveva ragione. Ero matto. E mi sono rovinato con le mie mani. Da allora non sono mai stato più quello di prima. La frattura non si è calcificata per bene e pedalare era diventata una sofferenza. Ecco, questo è il mio unico rimpianto".

 

Gli ultimi tre anni da professionista sono avari di soddisfazioni e tormentati dai dolori. E Dancelli lascia alla fine del 1974, a soli 32 anni. Ma Michele Dancelli, 80 anni, tre figli e tre nipoti, non vive di rimpianti. Se glielo chiedi, il film della sua vita di uomo e di corridore lo fa scorrere tutto quanto, nei dettagli e a colori, senza dimenticare nulla, o quasi. E, come allora, senza fare sconti a nessuno. Neppure a se stesso.

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