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Così lo sport manifesta contro l'invasione dell'Ucraina

Francesco Gottardi

Magliette, body painting, social: dal calcio al basket, tutte le forme del no alla guerra. A Kyiv il dramma di chi non può più partire, in Russia quello di chi non può mettersi contro Putin (ma lo fa lo stesso). L'Uefa toglie la finale di Champions a San Pietroburgo

Se Ruslan Malinovskyi non fosse solito a simili cannonate, verrebbe da dire che la sua doppietta contro l’Olympiakos vada ben oltre il furore agonistico. Ma pure quella maglietta esibita con orgoglio ha i contorni dell’immediatezza: scritta a penna, alla buona, presa in controtempo come tutti dall’escalation russa nel suo paese. Basta che si legga, davanti all’intera Europa League: no war in Ukraine. “È un segno del destino che stasera abbia segnato lui”, ha voluto dire Matteo Pessina, suo compagno di reparto all’Atalanta.

Altrove però, più delle simboliche suggestioni si cerca di capire. Per esempio, com’è possibile che la nazionale ucraina di pallacanestro sia dovuta scendere in campo contro la Spagna, in un’atmosfera mai vista, fra gli applausi scroscianti del palasport di Cordoba. “Non sono riuscito a pensare alla partita in alcun momento”, ha ammesso il centro Artem Pustovyi. Per tutti i 40’ si è dipinto in faccia lo stesso messaggio di Malinovskyi. “La mia mente era con i morti e i feriti laggiù. So che la mia famiglia sta bene, ma lo stesso non vale per tanti miei compagni”.

È l’epilogo di una giornata surreale anche per lo sport. Iniziata con il veleno lontano di Oleksandr Zinchenko, difensore ucraino del Manchester City: “Spero che Putin muoia della morte più dolorosa”, storia prontamente rimossa dalle policy di Instagram. E proseguita con le angoscianti cronache di Kyiv. Paulo Fonseca e Roberto De Zerbi l’anno scorso allenavano in Serie A. Oggi sono bloccati dalla guerra: l’uno si è visto annullare l’ultimo volo verso la libertà, l’altro è stato svegliato dalle bombe. “L’ambasciata italiana ci aveva sollecitato ad andarcene”, spiega l’ex Sassuolo, “ma non potevo girare le spalle allo Shakhtar. Sono un uomo di sport, venuto qui per fare sport. Ora mi armo di pazienza”. Nello stesso hotel, il suo denso blocco di giocatori brasiliani si è riunito ai connazionali della Dynamo Kyiv, 14 in tutto: “La situazione è disperata”, l’appello video al governo di Bolsonaro. “Siamo qui con i nostri bambini. Aiutateci a tornare a casa”.

 Ha corretto il tiro anche Andriy Shevchenko, forse la leggenda vivente più popolare del paese. “Negli ultimi trent’anni ci siamo formati come nazione: nell’unità vinceremo”, scriveva soltanto mercoledì l’ex fuoriclasse che guidò l’Ucraina ai Mondiali nel 2006 e all’Europeo in casa sei anni più tardi. Poi, dopo gli attacchi: “Vi prego di sostenerci e di chiedere al governo russo di fermare questa aggressione. Tutto quello che vogliamo è la pace”.

 

La rappresaglia diplomatica è in corso, non solo sui tavoli dell’Unione europea. Oggi la Uefa ha deciso di spostare in altra sede, Parigi, la prossima finale di Champions League, in programma a San Pietroburgo. Ma per farlo ha dovuto bypassare Gazprom, il colosso energetico russo che nell’ultimo decennio ha versato oltre 300 milioni nelle casse della federazione – su scala più piccola, in Germania, lo Schalke 04 ha già risolto: subito stralciato un contratto da 10 milioni per rimuovere quello sponsor dalle maglie.

Tra tutti, il gesto più coraggioso è arrivato praticamente dalla Piazza Rossa. Fedor Smolov, attaccante russo della nazionale e della Dinamo Mosca – la storica squadra della Ceka, archetipo del Kgb da cui sarebbe emerso lo stesso Putin – ieri ha pubblicato un post completamente nero. Con caption laconica: no alla guerra. Tre punti esclamativi, un cuore spezzato e la bandiera dell’Ucraina. Non l’ha oscurato nemmeno Instagram, ma perfino questo nel regime di Vladimir rischia di diventare un’audacia. E per chi legge, un pungolo. È così che si gettano ponti mentre tutt’attorno li fanno saltare. Smolov e Malinovskyi parlano la stessa lingua.