Dove finisce lo sport e inizia la politica? Le Olimpiadi e la rincorsa della realtà

Giorgio Burreddu

Gli Stati Uniti hanno annunciato che nessun rappresentante dell'amministrazione Biden andrà a Pechino 2022. La Cina ha risposto che l'America "pagherà" il boicottaggio diplomatico. L'ennesima dimostrazione di quanto lo sport abbia un ruolo nella politica

La Casa Bianca ha ufficialmente annunciato che nessun rappresentante dell'amministrazione americana sarà presente ai Giochi Invernali di Pechino 2022. Era stato Jean Psaki, portavoce il portavoce americano, lunedì scorso a spiegare ai giornalisti che gli Stati Uniti hanno un “impegno fondamentale nella promozione dei diritti umani” e che gli Stati Uniti “non contribuiranno alla fanfara dei Giochi”. La risposta di Pechino non si è fatta attendere. Zhao Lijian, portavoce del Ministro degli Esteri cinese, ha detto che l'America "pagherà" per il boicottaggio diplomatico e che gli amministratori americani “dovrebbero smettere di politicizzare lo sport e di interferire con parole e azioni contro le Olimpiadi” altrimenti “mineranno il dialogo e la cooperazione tra i due paesi in una serie di importanti aree e questioni internazionali e regionali".

Quanto sta avvenendo tra Washington e Pechino non è solo un rigurgito di Guerra Fredda, un riflesso di quella “mentalità”, “una farsa politica autodiretta”, come l’ha definita un portavoce della Missione cinese all’Onu. È molto di più. Ancora una volta è il segno di quanto lo sport abbia un ruolo fondamentale nella politica.

Ce lo dice la Storia. La prima sanzione nello sport fu contro Sparta. Aveva rotto la tregua olimpica e nel 420 avanti Cristo fu tenuta fuori dai Giochi.

Il Novecento e tutta la sua complessità non hanno fatto altro che porre nuovi problemi, nuove domande, e dunque nuove azioni. Con le Olimpiadi spesso luogo di metafora ma anche come atto per dire qualcosa.

Nel 1935 i Giochi furono strumento della propaganda nazista e la Spagna non partecipò per organizzare invece delle contro-Olimpiadi popolari (che poi non si svolsero per lo scoppio della guerra civile). All’edizione del ’68, in Messico, gli atleti Tommie Smith e John Carlos fecero il saluto delle Pantere Nere mentre suonava l’inno statunitense per denunciare il razzismo contro gli afroamericani negli Stati Uniti. Gesti divenuti iconici, il loro significato ci dice di più. E lo stesso vale per il boicottaggio.

Foto Ansa
 

Alle Olimpiadi del 1956, a Melbourne, non andarono Paesi Bassi, Spagna, Svizzera, Iraq, Cambogia, Libano ed Egitto. Per i prime tre fu un atto di solidarietà con la rivolta ungherese repressa dall’Urss. Le altre invece protestavano contro l’occupazione militare del canale di Suez da parte di Francia, Regno Unito e Israele. I Paesi africani nel ’76 boicottarono i Giochi in segno di protesta nei confronti della tournée della nazionale neozelandese di rugby che si era tenuta in Sudafrica nonostante l'apartheid. Nel 1980 gli Stati Uniti non presero parte alle Olimpiadi di Mosca in seguito all’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Fu uno sconvolgimento totale: 64 Paesi li seguirono, e altri 15 - fra cui l'Italia - mandarono gli atleti ai Giochi ma sotto la bandiera olimpica. Per Sara Simeoni, oro nel salto in alto, non suonò l'inno di Mameli: lei ha raccontato di aver canticchiato sul podio Viva l'Italia di De Gregori.

Foto Ansa

 

Quattro anni più tardi il secondo atto della guerra fredda edizione Giochi: a Los Angeles fu l'Unione Sovietica a tenere a casa i propri atleti e altri 14 Paesi la seguirono. Incredibilmente la Cina non fece fronte comune e anzi tornò all'Olimpiade dopo oltre trent'anni. In gara c'erano però gli atleti jugoslavi e quelli che rappresentavano la Romania di Ceausescu, che anzi brillarono nei palazzetti e nel medagliere.

Boicottaggio come stile di vita: ai Giochi di Seul del 1988, la Corea del Nord - formalmente ancora in guerra con il Sud perché il trattato di pace non è mai stato firmato - non si presentò, appoggiata da Cuba, Madagascar, Etiopia e Nicaragua. Più di trent'anni dopo, le Coree sono ancora due ma ci siamo abituati a vederle sfilare assieme.

 

Dove arriva lo sport? E dove la politica? Questioni di cui si sono occupati tutti, mica solo i politici. Economisti, politici, sociologi: gli studiosi gli hanno cercato di analizzare come gli eventi sportivi siano esempi di rituali, momenti attraverso i quali specifiche comunità entrano in contatto e allacciano legami culturali. È un discorso che a che fare con l’identità e con la cultura. Locale, nazionale, internazionale. George Orwell disse che "lo sport è una guerra senza gli spari". Ma lo sport, la partecipazione a un evento internazionale, diventa anche il segno di una legittimazione politica e di un riconoscimento internazionale, l’esclusione il segno di una debolezza. È qui che il boicottaggio diventa risorsa per dichiarare, davanti al mondo intero, una posizione politica. Però continuiamo a chiamarlo sport.

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