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Edmondo Fabbri, 100 anni e una Corea

Alberto Facchinetti

L’estate del 1966 lo segnò per sempre. Il mistero di quelle fialette rosa iniettate agli azzurri. Il figlio Roberto: “Aveva un rimpianto, essere arrivato troppo giovane a fare il commissario tecnico”

D’estate Edmondo Fabbri porta moglie e figli al mare, le vacanze familiari vengono organizzate sempre in riviera romagnola. Ma nell’agosto del 1966 l’allenatore della Nazionale non ha voglia né di sabbia né di ombrelloni, soprattutto non ha intenzione di vedere nessuno. In provincia di Arezzo sorge l’eremo di Camaldoli, gestito da una congregazione benedettina ed è qui che Mondino si rifugia per una decina di giorni, portando con sé solo Roberto, il più grande dei tre figli. I due fanno lunghe passeggiate, ogni tanto riuscendo a disputare una partitella a tennis. Così isolato dal resto del mondo, Mondino trova il tempo per pensare, scrivendo appunti sul suo taccuino. La Nazionale che ha appena guidato al Mondiale inglese è uscita malamente dal torneo, la clamorosa sconfitta con la Corea del Nord è un fallimento per il commissario tecnico e per tutto il movimento calcistico italiano.

Al rientro in Italia Edmondo ha capito subito cosa lo aspetta. Dall’aeroporto di Genova deve scappare di nascosto grazie al cugino della moglie e a dei poliziotti che gli organizzano la via di fuga in auto nel bel mezzo di un lancio di pomodori, uova e offese. Per lui è una delusione enorme che gli rimarrà appresso per tutta la vita. A un suo coetaneo in Brasile è successo qualcosa di simile, se non di peggio. Per un errore commesso il giorno del Maracanazo, che costò il titolo mondiale al Brasile nel 1950, il portiere Moacir Barbosa Nascimento, anche lui classe 1921 come Fabbri, vivrà per sempre come un reietto.
Martedì prossimo Edmondo Fabbri – detto Mondino o Topolino, per via della bassa statura – compirebbe 100 anni e ancora viene ricordato per quella sconfitta, nonostante un’ottima carriera da calciatore e da allenatore. Per l’anniversario è stato realizzato nel piccolo comune di Castel Bolognese, dove è nato, in provincia di Ravenna, un murale che lo ricorda. Il giornalista Tiziano Zaccaria ha appena pubblicato il libro (in vendita su Amazon) “Oltre la Corea - Vita e calcio di Edmondo Fabbri”, una biografia documentata ed equilibrata che mai diventa agiografia.

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Roberto Fabbri ha 70 anni e fa il medico. I tre figli di Mondino, scomparso nel 1995 a Castel San Pietro Terme, non sono mai stati dentro al mondo del calcio. A detta del padre non erano portati per fare la professione del calciatore e di certo non ha aiutato vedere il genitore soffrire così tanto per il pallone. “Avevo 15 anni – racconta Roberto al Foglio Sportivo – e quella del 1966 fu un’estate pesante. Una grossa delusione per il babbo, per la famiglia, per l’Italia. Con il tempo è riuscito a digerire un po’ quello che gli era successo, ma ripeteva in continuazione che c’è chi viene ricordato per un trionfo e chi per una delusione. A lui era toccata in sorte la seconda alternativa”.

Dopo aver giocato con Atalanta, Inter e Sampdoria in Serie A Fabbri era diventato allenatore del Mantova e con il cosiddetto “Piccolo Brasile” era partito dalla serie D arrivando alla A in quattro stagioni. Poi a un centimetro (aveva già firmato un rapporto di collaborazione con Angelo Moratti) dallo sostituire Helenio Herrera all’Inter, diventò nel 1962 a soli 40 anni commissario tecnico della Nazionale.

Un Mondiale pessimo, nel quale l’Italia uscì subito (in girone con Cile, Urss e Corea del Nord), pose fine alla sua carriera federale e limitò il suo percorso futuro. Soprattutto per via di quello che accadde al rientro a casa. Fabbri non riesce infatti a darsi pace e scrive un dossier sulla sconfitta di Middlesbrough. Ha l’impressione che i suoi giocatori via via che passavano i giorni fossero sempre più stanchi. Collega questo fatto a delle fialette di color rosa che venivano iniettate agli azzurri. Parla allora con Bulgarelli, Rivera, Rosato, Mazzola, Facchetti, Janich, Lodetti, Fogli e Pascutti e questi confermano i suoi dubbi. In lui prende sempre più corpo l’ipotesi di un complotto. Quando consegna alla stampa 16 cartelle dattiloscritte, la Federazione dà via libera al medico federale Fino Fini di sporgere querela, licenzia l’allenatore per giusta causa e lo squalifica per sei mesi. Anche i calciatori che gli sono stati vicini, ora correggono in qualche modo il tiro. Edmondo Fabbri si sente solo e amareggiato. Sui muri rimangono per un po’ le scritte “A morte Fabbri” e per anni negli stadi di tutta Italia verrà accolto al suo ingresso in campo dal coro “Corea-Corea” dei tifosi avversari.

“Tutta la sua carriera di allenatore – continua Roberto Fabbri – fu condizionata da quella partita. Nel 1966 c’era la possibilità di andare in un grosso club, ma saltò tutto per le troppe polemiche e per la squalifica. Fu il presidente del Torino Orfeo Pianelli l’unico a dargli una possibilità. Con i calciatori azzurri continuò ad avere un bel rapporto e non lo sentii mai avere parole poco carine nei loro confronti. Era comprensibile che al rientro nei loro club, cambiassero posizione”.

Mondino si sedette successivamente sulla panchina di Bologna e Cagliari. “Ma dopo il Torino bis non aveva più grande entusiasmo nell’allenare e preferì collaborare da esterno con club come Reggiana, Fiorentina e Bologna. Il babbo era molto appassionato della terra e gli piaceva curare il suo podere nelle colline romagnole. Ma è sempre rimasto nel calcio, alla domenica andava a vedere la partita e fece il commentatore tv per Rai, Fininvest e Telemontecarlo. Il calcio è stata la sua vita, al secondo posto dopo la famiglia. Per noi figli è stato una figura esemplare. Era il tipico romagnolo: schietto, simpatico, ma sospettoso. E rompeva definitivamente con chi lo tradiva”.

 

Roberto Fabbri ha rivisto da poco la partita Italia-Corea del Nord su YouTube: “Nei primi minuti Perani si mangia alcuni gol davanti alla porta. Ma fu determinante l’infortunio di Bulgarelli. No, il babbo non volle farlo scendere in campo a tutti i costi, il medico aveva dato l’ok e il ragazzo disse che si sentiva in grado di giocare. Lui era un calciatore molto importante per quella squadra. Mio padre aveva solo un rammarico. Di essere arrivato alla Nazionale troppo presto, dopo un solo anno di Serie A con il Mantova. Non che non fosse preparato al ruolo dal punto di visto tecnico e tattico, anzi. Ma non aveva ancora l’esperienza e la spregiudicatezza necessarie per gestire i rapporti con la stampa”.

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