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Il Napoli può vincere lo scudetto?

Giuseppe Pastore

La squadra di Spalletti è al primo posto. In sette partite di Serie A ha sempre vinto 

“Anche quando poi saremo stanchi, troveremo il modo”, dice uno dei più grandi intellettuali italiani del Ventunesimo Secolo ovvero Cesare Cremonini. Il Napoli di Spalletti, sette vittorie su sette, trova sempre il modo anche quando è stanco, intossicato dalla prima sconfitta stagionale e dalla fatica di circa un'ora in inferiorità numerica appena tre sere prima, nella maratona di Europa League contro lo Spartak Mosca, una partita da 90 minuti più 19 di recupero. Trova il modo anche contro una delle squadre più sofisticate del campionato, la tambureggiante Fiorentina di Italiano, che passa in vantaggio ma non riesce a mandare a memoria per intero l'enorme playbook offensivo del Napoli, che alterna con disinvoltura la palla lunga per Osimhen al più classico gioco delle tre carte su calcio piazzato: finta di Insigne, cross fulmineo di Zielinski, terzo gol (!) di Rrahmani, matto in tre mosse.

Il Napoli ancora non ruba completamente l'occhio, che poi è quel che fanno le squadre che alla fine vincono lo scudetto: di solito il premio della critica si dirige altrove, magari all'Atalanta o quest'anno al Milan che ha singoli momenti di calcio verticale entusiasmante. Tante volte è andato proprio al Napoli, accompagnato dall'aspro sapore della fregatura. L'importante è trovare il modo, anche – e soprattutto – quando si è stanchi. In questa chiave di lettura, più delle chiusure imperiose del ritrovato Koulibaly, paiono più istruttive le rincorse all'indietro di Politano, trattato per anni come un soprammobile carino e leggero, buono al massimo per il quarto posto.

  

Il Napoli vince in modo diverso dall'Inter, che procede spesso a energici scrolloni dalla panchina, come se avesse bisogno di finire sempre sott'acqua per ricordarsi di essere campione d'Italia. Lo fa senza avere in memoria il ricordo e la consapevolezza di vittorie passate più o meno lontane, ma la lucidità di chi ha capito che il momento è questo: e il discorso vale non tanto per i reduci di Sarri e del sarrismo che nel 2018 avevano perso “lo scudetto in albergo” proprio a Firenze, ormai pochissimi, quanto per i sopravvissuti all'ultimo avvilente biennio, in cui il gruppo non si è risparmiato alcun genere di angheria fisica e morale.

Il carpe diem riguarda anche Spalletti, che in Serie A è stato primo in classifica con tre squadre diverse ma non ha mai vinto il titolo, ricevendo – anche lui – tanti premi della critica per aver cambiato la vita a decine di giocatori, da Brozovic a Perrotta, da Nainggolan a Skriniar, per finire naturalmente con Francesco Totti. E superati i sessant'anni, invece di essere celebrato come un ottimo allenatore che quasi mai fallisce l'obiettivo, è stato a più riprese dipinto come vecchio, oscuro, involuto, persino psicopatico, un Cincinnato che si era ritirato in campagna consumato dallo stress metropolitano, un mangiafuoco e mangia-capitani essenzialmente a causa di un'autobiografia legittimamente di parte, scambiata troppo spesso per il Vangelo.

 

L'incontro al momento giusto di tante intelligenze mai del tutto valorizzate – una pratica così diffusa in Italia, dove si è giovani e incompresi talmente a lungo che poi un giorno ci si sveglia già vecchi – è il vero combustibile del Napoli. Che sa vincere in tanti modi e difatti lo ha fatto, se passiamo in rassegna queste sette vittorie: di superiorità tecnica contro il Venezia pur in dieci per un'ora, in modo brutto sporco e cattivo contro il Genoa, approfittando cinicamente degli errori altrui contro la Juve, passeggiando a Udine e Genova sponda Samp, infine costringendo il povero Cagliari di Mazzarri ad accontentarsi di difendere la sconfitta. E a Firenze di maturità, con pragmatismo quasi capelliano, restando ordinato, restando sé stesso, fiducioso di passare alla cassa prima o poi. Una di quelle vittorie che fanno pensare che ne seguiranno molte altre, anche se mai come a Napoli la vittoria è guardata con sospetto: l'entusiasmo popolare che riempie tv e social è solo il coperchio di un segreto vaso di Pandora di ansie, autolesionismi, psicodrammi sempre in agguato. In questo Napoli è davvero Argentina, un altro paese e un altro calcio che non ha più vinto nulla da quando è diventato orfano di Diego – anzi no, contrordine, quest'estate hanno alzato la Coppa America addirittura a casa dei brasiliani, e allora stai a vedere...

 

Luciano Spalletti conosce bene la cosiddetta “pesantezza dell'ambiente” avendola sperimentata a Roma (dove ha comunque totalizzato il record di punti, 87, che quest'anno basterebbero per lo scudetto) e pure a Milano, quando il cielo della seconda stagione fu coperto da nuvoloni plumbei essendogli piombato il caso Icardi tra capo e collo. Così ora lo vediamo sorridere, pacificare, compattare squadra e dirigenza, lui che per anni era stato raffigurato come una mina vagante. Il Napoli può vincere lo scudetto perché Spalletti vigilerà affinché non ci siano “casi”: il massimo dei rischi sarà un eccesso di maniavantismo. Per esempio, fin d'ora si fa un gran parlare di quello che accadrà a gennaio, quando la Coppa d'Africa priverà il Napoli della sua colonna vertebrale Koulibaly-Anguissa-Osimhen fino a un massimo di cinque partite. Ma a ben vedere, dopo la prima partita che sarà la mai banale Juventus-Napoli la sera della Befana, poi il calendario recita Napoli-Sampdoria, Bologna-Napoli, Napoli-Salernitana, Venezia-Napoli: sinceramente, nulla di trascendentale. Oppure si è sicuri che certi giocatori non reggeranno mentalmente – a questo punto il napoletano medio smozzica il nome di Mario Rui, e in effetti non ha torto – o che insomma ci sarà un inghippo, un intralcio, un Insigne che non vuole rinnovare, una paresi del nervo ascellare come accaduto a Osimhen la scorsa stagione, un Anguissa che scende sulla Terra, un Fabian Ruiz che ridiventa il ranocchio pigro e malmostoso della scorsa stagione invece che il sontuoso regista di quest'inizio stagione.

Un prevedibile rosario di possibili sciagure preventive, barocco ed esagerato come un film di Lina Wertmuller, che fa a cazzotti con l'affidabilità da BMW che il Napoli ha messo su pista in queste sette giornate. Crediamo che il Napoli non possa durare perché “tanto è il Napoli” e prima o poi qualcosa andrà storto, perché siamo un popolo calcisticamente conservatore alle prese con una Serie A che da trent'anni – a eccezione del biennio a cavallo del Giubileo – non si schioda dal monopolio Milano-Torino. E invece stiamo sottovalutando il vero tratto distintivo di questa squadra: tutti quegli inghippi e intralci e accidenti li ha già conosciuti in passato, sia individualmente che come gruppo, con il punto esclamativo alla rovescia della fatale e agonica Napoli-Verona 1-1, e adesso sta scoprendo che ne è uscito più forte. E non gli pesa il primo posto, non gli pesa la maglia che porta, non gli pesa l'Europa League (competizione della quale, se necessario, si sbarazzerà). Più è stanco, più si sente vivo.

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