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Una storia lunga più di un secolo

Non solo Don Camillo e Don Matteo. Il Vaticano corre davvero in bicicletta

Giovanni Battistuzzi

L'Uci ha riconosciuto Vatican cycling come duecentesimo membro ufficiale. La bici era simbolo demoniaco, fu vietata per decenni ai parroci. L'inseguimento tra chiesa e ciclismo si è concluso. Anche agonisticamente. Cent'anni fa la prima "gara" in tunica nera

Ora che l'Union Cycliste Internationale (UCI) ha riconosciuto Athletica Vaticana – o meglio la sua sezione a pedali, Vatican cyclingcome suo duecentesimo membro ufficiale, un ciclo storico è giunto a compimento: tesi e antitesi hanno trovato sintesi ufficiale, dopo un progressivo avvicinamento durato oltre un secolo.

Perché la bicicletta era opera demoniaca, da “fuggire e contrastare” perché “pericolosa e ribelle”, come disse il vescovo di Milano Luigi Nazari di Calabiana sul finire degli anni Settanta dell'Ottocento, all'apparire dei primi velocipedi in città.

 

La Chiesa e la bicicletta

Così è stato per decenni e decenni. Perché se è vero che già Papa Pio X benedisse i corridori al via del primo Giro d'Italia (era il 1909) lodando l'impegno e il sacrificio, molto cristiano, del ciclista alle prese con l'estrema fatica, è pur vero che il pontefice era lo stesso Giuseppe Melchiorre Sarto che “siccome questa novità (la bici) minaccia di essere adottata anche da qualcheduno del clero, ordino che se ne astengano affatto gli ecclesiastici di questa diocesi”. La lode di Papa Francesco nel 2019 alla bicicletta –che "mette in risalto alcune virtù come la sopportazione della fatica nelle lunghe e difficili salite, il coraggio, nel tentare una fuga o nell’affrontare una volata, l’integrità nel rispettare le regole, l’altruismo e il senso di squadra" – non sarebbe stata nemmeno pensabile.

In diverse diocesi rimase così sino a quasi gli anni Quaranta del Novecento. Nel 1936, in quella di Porto e Santa Rufina (Roma) a tutti i sacerdoti era vietato il possesso e l'uso della bicicletta. Il Cardinal Boggiani scriveva allora: “Il grave abuso che si verifica qua e là nella diocesi nonostante gli avvisi più volte dati, proibiamo a tutti i sacerdoti della diocesi sotto pena di sospensione a divinis ipso facta incurrenda, di usare per qualsiasi motivo la bicicletta”.

Era lo stesso anno nel quale Orio Vergani, seguendo il Giro d'Italia, sulle pagine del Corriere della Sera manifestò il suo stupore nel vedere “tanti preti venuti sulla soglia della chiesa magari con una bandierina in mano. Un Giro con tanti fraticelli che aspettavano pazientemente sotto gli alberi. Un Giro con tanti seminaristi allineati sui viali fuori porta e con tante monache che portavano fuori dal cancello della loro scuoletta le bambine che battevano le mani anche loro. Questo è un Giro di credenti".

 

Da Bartali a Don Matteo passando per Don Camillo

Era quella la prima corsa rosa vinta da Gino Bartali (e l'ultima edizione senza le Dolomiti) colui che più di ogni altro riuscì nell'impresa di avvicinare due mondi che sì avevano iniziato a dialogare tra loro, ma che ancora erano distanti e pieni di pregiudizi.

Il Don Camillo di Giovannino Guareschi, l'archetipo di tutti i preti in bicicletta, era ancora lontano da apparire. Sul Candido si materializzò nel 1946. Il Don Camillo di Guareschi era una sovrapposizione letteraria di due parroci che lo scrittore aveva conosciuto: don Camillo Valota, partigiano della seconda guerra mondiale e detenuto nei campi di concentramento di Dachau e Mauthausen, e don Ottorino Davighi, parroco di Polesine Parmense. Fu il nonno di Don Matteo, il personaggio che diede a Terence Hill una seconda giovinezza televisiva. 

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La bicicletta era dagli anni Venti del Novecento che entrava nei sagrati delle chiese a macchia di leopardo. Non sempre centro e periferia del cattolicesimo si intendevano. A volte non si parlavano proprio, tanto che, almeno per quanto riguarda la bici, moltissime tonache nere avevano iniziato a scorrazzare tra le campagne italiane ben prima che la Santa Sede si interessasse al problema e considerasse questo mezzo degno di un parroco.

 

La "prima" corsa in bicicletta della storia tra preti

Qualcuno iniziò prima degli altri. Erano i primi mesi del 1921, la prima guerra mondiale era un ricordo recente e per nulla assimilato. Soprattutto a Trieste, città da poco italiana e animata da un conflitto etnico e divisa anche da profondi contrasti religiosi. Fu allora che il vescovo Angelo Bartolomasi decise che era venuto il momento di dare un segnale, di promuove fratellanza tra le diverse realtà cittadine. Che fare? Celebrazioni e incontri non sarebbero stati utili, serviva qualcosa di mai visto come una pedalata della fratellanza. Finì con rappresentati di cattolici, greco-ortodossi, ebrei e protestanti tutti insieme manubrio accanto a manubrio. Il ciclismo si era già imposto come grande passione popolare e aveva iniziato a scaldare i sentimenti sportivi di molti. Anche di due seminaristi che in altre zone d'Italia nemmeno avrebbero dovuto pedalare. Fu salendo verso San Giusto che si sfidarono a chi ci metteva meno ad arrivare in cima. Probabilmente la prima sfida a pedali nella storia della Chiesa.

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