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Il Foglio sportivo

Viva gli ori senza un domani

Roberto Perrone

Dal taekwondo alla vela passando per il karate. Elogio dei podi nelle discipline di cui ci ricordiamo ogni quattro anni (e ci lamentiamo se non vincono)

Il vero fascino dell’Olimpiade sono le storie senza un domani. Almeno da un punto di vista mediatico. Nel 1992 andai a intervistare una cavallerizza che partecipava alle gare di equitazione sotto la bandiera italiana. Era di padre tedesco e madre italiana. O viceversa (non sono storie senza un domani?). Con la Germania non avrebbe trovato spazio all’Olimpiade, ma con l’Italia sì. Fu molto sincera. Esordii, spigliato, con una domanda in italiano e lei mi fissò con uno sguardo obliquo: “In tedesco, bitte. O in inglese”. Beh, già questo valeva la storia. Non andò sul podio, ma chi fa la contabilità delle medaglie non tiene conto del fascino di queste storie senza domani, che, con qualcosa al collo oppure no, durano lo spazio dei Giochi e poi spariscono.

La grandezza dell’Olimpiade non è raccontata da Marcell Jacobs, da Gimbo Tamberi o da Massimo Stano, oro della fatica, ultimo della stirpe dei marciatori, dalla Divina Pellegrini o da SuperGreg Paltrinieri e dai suoi fratelli del nuoto. Neanche dall’argento di Vanessa Ferrari che ha una vicenda umana particolare, capace di bucare i media partendo dalla ginnastica, disciplina tra le più nobili ma che dipende, per l’ampiezza della sua presenza sui mezzi d’informazione, dalla potenza del “personaggio”. Un po’ come il pattinaggio su ghiaccio con Carolina Kostner. Queste sono le medaglie “di lungo corso” nel senso che sopravviveranno nei prossimi mesi e anche nei prossimi anni all’oblio di un’informazione sportiva che difficilmente arriva alla Serie B nel calcio, oltrepassa l’automobilismo/motociclismo, il basket e il tennis). Poi ci sono quelle della scherma e del ciclismo (donne e pista, perché quelle della strada sono un’altra cosa), che possiamo chiamare “della terra di mezzo”. Non avranno, nel tempo, lo stesso impatto sulla memoria nostra e dei giornali, ma le due discipline riescono sempre a mantenere un discreto livello di interesse.

Il paradosso è che la seducente bellezza dell’Olimpiade comincia un gradino sotto. Da sport che è un’eresia definire minori ma a cui, è un fatto, dedichiamo, tra un’Olimpiade e l’altra, uno spazio minore, quando non, addirittura, zero titoli.

Vito Dell’Aquila, pugliese di Mesagne, ci ha esaltato per la sua rimonta nel taekwondo, perché era il primo oro azzurro e per la dedica al nonno, scomparso da poco. Dopo qualche comparsata in tv (un incauto presentatore gli ha chiesto come stava il nonno), nei giorni e nei mesi che seguono l’Olimpiade, scomparirà dai radar mediatici per ripresentarsi a Parigi 2024, speriamo per lui e per noi. Quella di Vito, infatti, è, in ordine di apparizione, la prima medaglia “ogni quattro anni”, cioè quelle destinate a venire raccontate solo all’Olimpiade. Eppure sono proprio con quelli come lui il condimento dell’avventura olimpica.

Le “medaglie ogni quattro anni” sono una quota significativa del medagliere italiano. Se Marcell Jacobs è il picco della leggenda olimpica, tutti questi, ragazze e ragazzi, uomini e donne, sono il muro portante dell’Olimpiade che si basa sulle storie una tantum.

Che ne sappiamo del sollevamento pesi? Che è uno sport di fatica di cui scriviamo ogni quattro anni. Proprio il 7 agosto del 1984, a Los Angeles, Norberto Oberburger, meranese, padre da tre giorni, conquistò l’oro nella categoria fino a 110 kg. Scrisse Gianni Brera: “Lui e non altri immagino che avrebbe voluto a modello il celebre Fidia per scolpire le esagerose fattezze di Ercole”. Ai birignaisti di oggi, quelli che deridono l’epica dei racconti olimpici, farà accapponare la pelle, ma questa prosa gli era dovuta. Lo ritrovammo a Seul ’88, come se per 48 mesi avesse vissuto nel limbo. Mandarono me a seguire la sua riemersione dall’oblio. Fu sesto, con un po’ di generale malcontento giornalistico. Perché il bello delle storie senza un domani è che le rivogliamo intatte all’Olimpiade successiva.

A Tokyo sono arrivati l’argento di Giorgia Bordignon, e i bronzi di Antonino Pizzolato e Mirko Zanni. Un trionfo, tre medaglie si erano viste solo nel 1924 a Parigi. Le loro storie parlano di sacrifici, di spostamenti. Giorgia è nata ad Arsago Seprio, in provincia di Varese, ha studiato al conservatorio ma ha raccontato che sua madre a casa non la sopportava più e la spedì in palestra. Diciotto anni di pesistica, un trasferimento in Puglia e gli allenamenti al centro tecnico dell’Acqua Acetosa per diventare la prima  italiana a salire sul podio. Ci dimenticheremo anche di Ruggero Tita e Caterina Banti che con la medaglia d’oro nella classe mista Nacra 17 della vela (alzino la mano i quattro che sanno di cosa si tratta), ci hanno fatto sentire navigatori e non solo gitanti col gozzo. Da qui a Parigi, di vela sentiremo parlare solo per Luna Rossa. Beh, anche di canoa e canottaggio, tiri (con fucile e arco) non avremo notizie. Anzi, dai tiri siamo rimasti delusi per l’assenza dell’immancabile oro. Per quattro anni non li consideriamo ma se non vincono mettiamo su quest’espressione inviperita. Grazie comunque, ci ri-raccontiamo tra quattro anni (tre, vabbè).

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