Simone Biles a Tokyo 2020 (LaPresse) 

spazio okkupato

Biles e Osaka: un'epidemia di vulnerabilità si sta impossessando dello sport

Giacomo Papi

Con gli Europei, abbiamo visto una congrega di maschi tanto inclini a mostrare le proprie debolezze come mai prima d'ora. Ora le Olimpiadi: lo spettacolo dello sport si amplia fino ad accogliere l’intera gamma delle emozioni umane

È tutto cominciato agli Europei di calcio con Álvaro Morata, il centravanti della Spagna che, dopo ogni partita, andava a raccontare ai giornalisti la fatica e il dolore di gestire, nonostante l’aiuto di uno psicoterapeuta, l’insostenibile pressione del calcio e il senso di depressione incombente per chi fa sport a livelli mondiali. Ma Morata non è stato l’unico. In tutti gli Europei di calcio, per la prima volta in maniera massiccia ed evidente, gli atleti si sono mostrati vulnerabili senza provare vergogna: Simon Kjær, il sontuoso centrale di Danimarca e Milan, che dopo avere eroicamente soccorso il compagno Eriksen colpito da infarto in mezzo al campo, chiede al suo allenatore di uscire; il terzino della Spagna Azpilicueta che corre a consolare il portiere Unai Simón, autore di un autogol ridicolo in Croazia-Spagna; le lacrime e la lettera di scuse di Mbappé dopo aver sbagliato il rigore che ha eliminato la Francia; la telefonata alla mamma di Chiesa e l’abbraccio di gioia tra Vialli e Mancini dopo la vittoria con l’Inghilterra in finale. Era dalla comparsa dell’homo sapiens, 200 mila anni fa, che non si vedeva una congrega di maschi tanto inclini a mostrare le proprie debolezze e i propri sentimenti. 

L’ipotesi che il fenomeno fosse determinato da un decisivo balzo in avanti evolutivo della specie nella sua metà maschile è stata clamorosamente smentita in questi giorni dal ritiro alle Olimpiadi della ginnasta americana Simone Biles, la più grande di sempre, e dalla sconfitta della tennista giapponese Naomi Osaka, numero uno al mondo, che peraltro in passato aveva già apertamente parlato delle proprie difficoltà. Osaka e Biles non sono casi isolati. E non sono soltanto, come è stato scritto dai giornali e social di tutto il mondo, la benedetta dimostrazione che anche gli sportivi sono esseri umani. Sono soltanto gli episodi più clamorosi di un processo di fragilizzazione e sentimentalizzazione dello sport che non si era mai visto, almeno in queste proporzioni, perché fino a oggi la debolezza era stata tenuta nascosta dalle strutture erette intorno agli atleti. È come se all’improvviso un’epidemia di vulnerabilità – di vulnerabilità dichiarata, spiegata al pubblico, condivisa – si stesse impossessando dello sport mondiale. Ma è anche come se lo spettacolo dello sport, in quanto forma epica simbolica – incarnata da atleti eroi e messa in scena attraverso i loro corpi secondo regole precise – si stesse ampliando e precisando fino ad accogliere all’interno del proprio racconto, in modo più esplicito di quanto non sia mai avvenuto in passato, non soltanto la bellezza e la forza dei corpi, ma anche l’intera gamma delle emozioni umane. 

Può darsi che questa trasformazione, ormai evidente, sia dovuta a una aumentata pressione dei media tradizionali e social, come sembrano suggerire le dichiarazioni degli atleti che ne hanno parlato. Può darsi che la sincerità, ma anche la mancanza di pudore, faccia parte di una più generale tendenza a condividere tutto, anche emozioni e fallimenti che nel Novecento si sarebbero tenuti nascosti. E può darsi che la pressione sia stata ingigantita per una delle ideologie più forti e dannose del nostro tempo, l’idea che volere è potere, che se non ce la fai, quindi, in fondo è colpa tua. Ma può darsi soprattutto che la globalizzazione dello sport, la necessità di trasformare ogni gara in evento, da pompare al massimo per scopi pubblicitari, l’assedio degli sponsor – tra gli stress maggiori per Simon Biles c’era la quantità di berretti da indossare – e la prossimità del pubblico sui social, innamorato e crudele, abbiano eroso il confine che, fino a oggi, aveva tenuto separato lo sport dal resto del mondo e protetto gli sportivi dalla pressione degli umani. 

Uno dei principali e più sottovalutati effetti della disintermediazione è che, nel bene e nel male, la struttura non regge più, non riesce più a contenere, quindi neppure a proteggere, chi ne fa parte. Oggi gli sportivi di livello mondiale hanno raggiunto un peso incomparabile rispetto alle squadre o alle nazioni in cui militano. Forse deriva anche da questa sproporzione tra atleta e squadra deriva il peso crescente di procuratori e manager, cioè della piccola cerchia di cui il giocatore ha bisogno di circondarsi per illudersi di essere al sicuro. Nel calcio il processo è lampante: Zlatan Ibrahimovićc, per esempio, su Instagram ha 48,7 milioni di follower, quasi cinque volte di più dell’account del Milan, la squadra di cui dovrebbe essere un dipendente. Oggi i grandi sportivi assomigliano ai grandi attori di Hollywood o ai grandi cantanti rock. Possono prestare il proprio talento a un film, a una band o a una squadra, ma sostanzialmente rimangono star singole e sole, che per questo sono più esposte di chi gioca in squadra alle devastazioni della solitudine.

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