Antognoni e l'"ingombro" delle bandiere

Enrico Veronese

La Fiorentina e il suo storico capitano si dicono addio. I sentimenti nel calcio tra la nostalgia del passato e i conti con il presente

La costante tensione tra l’intelligenza e i luoghi comuni viene messa a dura prova, quanto alla fine delle bandiere nel calcio, dall’altrettanto ineluttabile divario tra il dover essere e la realtà. È di ieri la notizia che il rapporto tra la Fiorentina e Giancarlo Antognoni, il più iconico tra i suoi uomini immagine assieme a Batistuta, si è bruscamente interrotto, nel momento in cui il campione del mondo del 1982 sarebbe stato “demansionato” da club manager a direttore tecnico del settore giovanile. Un compito appagante, senza dubbio, per chi ha fatto del campo la sua vocazione e potrebbe recapitare in viola alcuni tra i migliori talenti della nuova generazione; ma anche, allo stesso tempo, un modo per rimuovere dalla prima squadra e dalla ribalta mediatica un personaggio che a qualche dirigente potrebbe apparire scomodo, data l’aura inevitabile che ancora porta con sé.

 

È bastato, nel celebre 7-1 di coppa Italia contro la Roma (era il 30 gennaio 2019), che Pupo sovracantasse dal vivo il suo inno “Firenze Santa Maria Novella” alla fine della partita, chiamando a sé dalla tribuna vip dello stadio Franchi proprio il campione citato nel brano, per oscurare in parte l’impresa sportiva accaduta qualche metro più sotto, lungo il rettangolo verde. Soprattutto nelle città che vivono di forti passioni, specie se “monocratiche” e non divise tra due squadre, le bandiere assurte a dirigenti sono ombrelli e parafulmini, mandate allo sbaraglio in caso di sconfitta o contestazione, buone per riappacificare ultras e cronisti, e tagliare i nastri alle feste dei club: da ieri, la Fiorentina italoamericana dei Commisso e Barone ha deciso che non sarà più così, preferendo ritirare quella che vede come un’arma a doppio taglio anziché un amoroso solutore di eventuali problemi. Poco importa che il nuovo allenatore - il bravo e ambizioso Vincenzo Italiano - sia appena arrivato e la rosa per il campionato non ancora del tutto costruita, in una piazza che ha rumoreggiato storicamente per cessioni celebri (Baggio, Bernardeschi, Chiesa ma non solo): il recupero del 10 di Marsciano effettuato dai Della Valle cessa così, con qualche margine di insofferenza e malcelati sospiri di sollievo per “l’ingombro” rimosso. Una prassi, a ben vedere, sempre più costante: lontani i tempi in cui Bulgarelli, Facchetti, Sandro Mazzola, Rivera e il compianto Boniperti venivano “sventolati” dal team di appartenenza ben oltre la fine della loro attività agonistica.

 

Oggi Totti fa il procuratore e De Rossi si è rifugiato in Nazionale, là dove i massimi idoli sampdoriani fanno il bello e il cattivo tempo: anche perché lavorare con Ferrero non dev’essere facile, Angelo Palombo resiste ma nell’area tecnica. E se la Juve ha ritagliato un posticino operativo -ma non troppo- a Pavel Nedved, le tende di Del Piero sono piantate oltreoceano. Per non dire di Paolo Maldini, il cui riscatto dirigenziale è avvenuto solo molti anni dopo l’ultima partita, e i vergognosi fischi della curva rossonera al difensore più grande di sempre. C’è chi alle bandiere manco pensa di affidarsi: Napoli e Toro non sfruttano i propri scudettati, la Lazio non vede ruoli per il controverso Di Canio, mentre langue il “Pupi” Zanetti all’Inter, attivo più con la propria fondazione benefica che in nerazzurro. L’eccezione che conferma la regola? Buffon tornato al Parma, ancora in porta per un anno ma già sicuro di un posto dietro una scrivania. Finché, naturalmente, non diventerà troppo “ingestibile” per chi ci mette del suo.

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