Dopo la sconfitta contro Djokovic

Berrettini, la finale di Wimbledon "è solo l'inizio"

Ci rivediamo l'anno prossimo, anzi, a Tokyo tra un mese, e poi a New York e a Torino per le Atp Finals, Matteo.

Giorgia Mecca

Dopo aver salvato un set point, ha cominciato a respirare, si è accorto di essere al momento giusto nel posto giusto, quello che si merita. Smettiamo di chiamarlo sogno, favola, miracolo

Sedici ace contro i cinque dell’avversario, cinquantasei vincenti a trentuno, sei chilometri di scatti avanti e indietro, da una parte all’altra del campo, una prima di servizio che viaggia a 222 chilometri. Contro Novak Djokovic non basta mai. Dopo tre ore e ventuno minuti di partita, Matteo Berrettini si è dovuto arrendere, al suo esordio in finale a Wimbledon è stato sconfitto in quattro set dal più forte di tutti, che conquista il suo sesto titolo sull’erba di Londra, il terzo consecutivo e raggiunge Nadal e Federer a quota venti Slam. Con questo successo Djokovic è a meno sette vittorie dalla conquista del Grande Slam, obiettivo che manca al tennis maschile dai tempi di Rod Laver. Era il 1969, cinquantadue anni fa.

E Matteo? Matteo è sceso sul Centrale e non ha dato ascolto a chi dal divano gli consigliava di godersi il momento, che era già un traguardo essere arrivati fin lì, che doveva essere felice e bla bla bla. “Se giochi come hai giocato nelle ultime due settimane puoi vincere” gli ha detto Vincenzo Santopadre guardandolo negli occhi, e lui gli ha dato retta come fa da undici anni, e ha fatto bene. Nemmeno contro i cannibali si scende in campo da sconfitti, tanto varrebbe allora non giocare proprio. L’azzurro invece non solo ha giocato, ma ha imposto il proprio gioco. Perdeva cinque a due il primo set, paura, braccio contratto, gli occhi delle cattedrale del tennis tutti puntati su di lui, la prima finale Slam in carriera. Berrettini, dopo aver salvato un set point, ha cominciato a respirare, si è accorto di essere al momento giusto nel posto giusto, quello che si merita.

Smettiamo di chiamarlo sogno, favola, miracolo. Prima di avere Kate Middleton ad applaudirlo tra gli spalti, ci sono stati anni di futures, challenger, settimane e settimane in giro per il mondo a cercare di raccattare qualche punto è qualche soldo, ci sono state stagioni di passaggio, a esultare per i terzi turni, a non avere il coraggio di desiderare niente di meglio. La gavetta dei tennisti può essere infinita e non portare da nessuna parte, era il numero sessanta del mondo nel 2018, Matteo Berrettini. Aveva ventidue anni, la sua poteva considerarsi una carriera dignitosa. Se qualcuno gli avesse detto che tre anni dopo avrebbe stretto la mano a Djokovic in finale sull’erba di Londra forse si sarebbe messo a ridere.

Come ha scritto Dario Cresto Dina su Repubblica, il ragazzone romano è un bello che non ostenta bellezza. Nemmeno adesso che potrebbe permetterselo, nemmeno adesso che è terzo nella race e nessuno vorrebbe trovarselo dall’altra parte della rete come avversario. In queste due settimane abbiamo sentito parlare di tennis al mercato, in metro, in coda in farmacia, qualcuno ha dovuto spiegare ai novellini cosa sono i break point, cosa significa giocare contro Novak Djokovic a Wimbledon, come si fa a tirare una prima di servizio a duecento chilometri orari, e domenica alle 15 le città erano tutte in silenzio come si usa nel tennis, a tifare Matteo, chiamato da tutti con il nome di battesimo, come si fa con le persone a cui si vuole bene. "È più forte di me” ha detto l’italiano durante il discorso di premiazione rivolgendosi a Djokovic. Tutto vero. Però ha anche aggiunto: “Per me questa non è la fine, è solo l’inizio”. Vero anche questo. E allora ci rivediamo l’anno prossimo, anzi, a Tokyo tra un mese, e poi a New York e a Torino per le Atp Finals, Matteo.

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