L'Europeo che segnò il passaggio dalla vecchia alla nuova Europa

Enrico Veronese

I campionati europei in Svezia del 1992, la vittoria a sorpresa della Danimarca (che non doveva neppure partecipare) e il passaggio a un mondo nuovo

L’ossessione europea degli italiani, lungi dal diventare scetticismo o calcolatrici moltiplicate per 1936.27, è montata con ansia alla fine degli anni Ottanta. Si rispondeva “Europa Europa” al telefono per sperare nei gettoni, Cutugno eterno secondo a Sanremo vince l’Eurofestival con l’imbarazzante quanto ruffiano motivetto “Insieme”. I parametri di Maastricht per molti sono un incubo, per altri un tormentone buono per farci satira su Rai Tre: estate 1992, l’anno dell’Europa unita, delle mie delle tue vacanze. E dei campionati europei in Svezia, ex paradiso della socialdemocrazia reale: ma l’Italia non c’è, deve leccarsi le ferite freschissime delle bombe di Capaci e quelle, in via di suppurazione, della Tangentopoli milanese. Sarebbe stato l’ultimo torneo del piccolo mondo antico, il colpo di coda dell’ancien régime, e contemporaneamente il vagito del Mondo Nuovo.

Tutti i pundit erano concordi nel trattare da favorita la Jugoslavia di Ivica Osim, sfortunata protagonista ai Mondiali italiani e imperniata sul blocco della Stella Rossa già campione d’Europa per club l’anno prima. Un concentrato di talento puro che in campo riesce a trovare un suo equilibrio: ma Slovenia e Croazia avevano già lasciato la tenda, quasi senza sangue. Era stato proprio il calcio, secondo molti, a dare il via alla scintilla: il 13 maggio 1990 la finale di coppa nazionale tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado diventò caccia all’uomo, il delizioso destro di Boban uso ad arcuare punizioni si addestrò contro il polpaccio di un poliziotto serbo, furono squalifiche e amnistie dall’alto ma la crepa ormai poteva solo spalancarsi, sfogando ceneri sopite.

La Uefa non poteva far finta che un conflitto armato, il primo nel cuore dell’Europa dal 1945, non stesse cancellando di fatto una delle partecipanti. Così, il 1º giugno 1992, a dieci giorni dall’avvio ufficiale, un fax arrivò alla federazione di Belgrado e cambiò le sorti della manifestazione, del calcio continentale e di molte carriere. La Jugoslavia rimase eterna incompiuta, infranta sulle manone di Goycochea a respingere il rigore di Hadzibegić (cfr. “L’ultimo rigore di Faruk”, scritto da Gigi Riva per Sellerio).

Anche l’ormai ex Unione Sovietica dava grattacapi, investita in pieno dal passaggio tra la perestrojka di Gorbaciov il golpe Janaev e il carro armato salito da Eltsin. L’assenza di un conflitto armato consentì, nell’anno olimpico, la partecipazione agli eventi sportivi sotto la tautologica sigla di Confederazione degli Stati Indipendenti, a trazione russa là dove prima primeggiavano gli ucraini di Lobanovskij. Un celebre spot televisivo, tre anni più tardi, ci avrebbe giocato sopra.

In un tale quadro, che fare dunque per salvare i campionati? In fretta e furia la Danimarca, seconda arrivata nel gruppo della Jugoslavia, viene ammessa al gioco e il commissario tecnico Richard Møller Nielsen convoca atleti fuori allenamento, che anzi già gremivano le spiagge mediterranee. Poco resta della splendida Danish Dynamite del periodo 1984-88, privata anche del piede leggiadro di Michael Laudrup che si chiama fuori per presunte incomprensioni tattiche con l’allenatore. Ma dove vogliono arrivare, si chiedono tutti.

In campo solo otto squadre, altro che le 24 di oggi. Sopra le maglie spuntano per la prima volta i nomi dei giocatori, Platini - prima di diventare presidente della Uefa - sedeva sulla panchina della Francia per la sua unica esperienza da coach. Sarà un torneo dal calcio involuto, legnoso come le lunghe leve del mediano inglese Palmer: solo più tardi la colpa sarebbe stata data ai palloni troppo leggeri, capaci di traiettorie imprevedibili.

Ore 20 del 26 giugno, allo stadio Ullevi di Göteborg la scontata Germania, campione del mondo e testè riunita, affronta in finale la sorpresa Danimarca, che rivela le doti di Henrik Larsen, mediano del Pisa cadetto. In patria la piccola Line Vilfort, otto anni, soffre di un cancro letale: in campo papà Kim, classe operaia, segna il goal del 2-0 che laurea la Danimarca campione e commuove tutto il mondo mentre solleva la coppa. A Bologna un giovanissimo scrittore, Enrico Brizzi, sta per consegnare all’editor Massimo Casalini di Transeuropa le bozze della sua opera prima: “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”: sarà un cult generazionale, con Alex che sbeffeggia l’Uomo con le Previsioni Sicure, "quello che era certo che la Danimarca avrebbe preso una vagonata di goal e sarebbe stata eliminata nelle qualificazioni. La gente capisce le cose solo quando sono già successe, mai mentre accadono".

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