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La campagna d'Europa di Manchester

Roberto Gotta

 Divisa in due da sempre, la città di City e United vuole conquistare Champions ed Europa League

Manchester on tour, Manchester che a fine maggio, divisa in due come sempre, parte alla conquista di luoghi agli estremi opposti del continente: Danzica per i tifosi dello United, per la finale di Europa League contro il Villarreal, e Porto per quelli del City, mattinata a disposizione per eventuali escursioni e serata di sabato 29 all’Estádio do Dragão per la grande sfida di Champions League contro il Chelsea. Con sé, i viaggiatori autorizzati porteranno consapevolmente e inconsapevolmente l’immagine e la percezione della loro città, variabili di persona in persona ma condensate in fulminanti ritratti tra il pop e il pregiudizio. Città della pioggia, massì, tanto che prima dell’avvento dei solarium si diceva scherzosamente che un residente locale con il volto improvvisamente scuro non fosse abbronzato ma arrugginito.

Città della musica, esplosa a fine anni Settanta in reazione al predominio della vicina Liverpool: secondo lo scrittore Stuart Maconie, praticamente tutti i presenti a un concerto dei Sex Pistols del 20 luglio 1976 fondarono prima o poi una propria band, e certamente tra loro c’erano Bernard Sumner e Peter Hook (Joy Division, poi New Order, la cui spilla veniva orgogliosamente portata dal calciatore Pat Nevin sul cappottone nero da alternativo) Mick Hucknall (Simply Red), Morrissey (Smiths, la band più manchesteriana possibile), Pete Shelley e Howard Devoto (Buzzcocks), aprendo la strada al successivo periodo di straordinario fervore chiamato Madchester di cui si fecero capofila gli Stone Roses; e in un classico fenomeno di trasmissione generazionale fu proprio a un concerto di questi ultimi che un giovane Liam Gallagher decise di creare, col fratello Noel, gli Oasis, ora mito internazionale al punto da far credere che i due siano gli unici tifosi veri del Manchester City.

Ecco, il calcio: legato alla musica, legato a Manchester in maniera seria, non leziosa, non forzata. Non è l’attribuzione forzata di affinità tangueire ai tifosi argentini, non è il pensare che ogni tifoso del Betis o del Siviglia conosca i maestri del flamenco: è qualcosa di reale e concreto, sbattuto in faccia ma anche sottinteso nelle magliette, nei brevi cori, nelle citazioni, nell’autocelebrazione di una città spesso malvista dalle altre proprio per il senso smodato di sé. Una qualità calcistica e di passione distribuita nei decenni, con un’alternanza sbilanciata verso lo United nel periodo Fergusoniano in cui televisione e internet permettevano una maggiore diffusione dei fatti. Facendo credere ai meno informati, quelli che la storia (non) la studiano ora su Instagram, che quella fosse sempre stata la realtà: ed ecco allora la narrazione del City come piccolo club, lo sfigato che per risollevarsi si getta in mani mediorientali e dalla sera alla mattina riscopre fama e tifosi. C’è solo un problema: che se non fosse stato per scelte errate il City, vinti campionato, Coppa d’Inghilterra, Coppa di Lega e Coppa delle Coppe tra 1968 e 1970, avrebbe creato un ciclo che avrebbe attirato giocatori e tecnici in grado di farlo arrivare, magari, alle altezze poi toccate dai rivali cittadini una volta saldo sulla panchina l’Alex Ferguson di cui sopra. Che assorbì a tal punto la mentalità locale da dare un giorno la celebre definizione del City come noisy neighbours, i vicini di casa che fanno casino tutto il giorno, spostano i mobili alle due di notte ma restano pezzenti nell’animo e nell’arredamento. Da lì, a cascata, tutto il florilegio di luoghi comuni, gettati tra l’uno e l’altro fronte come bombe a mano senza spoletta: la fama immeritata dei tifosi United come foresti, ad esempio. Ah, ma voi non vincete nulla da anni, replicavano dalla fazione rossa, pensate che il ‘nostro’ ex Denis Law, quando lasciò il City, portò via per sbaglio la chiave della bacheca dei trofei ma nessuno se ne accorse, perché non serviva. E via sfottendo, il che non sarebbe neanche male – banter, lo chiamano lassù – se non fosse che le baruffe creano miti di cui non tutti riescono a cogliere la falsità. Il City di scarsi risultati degli anni Ottanta e Novanta aveva però una tifoseria immaginifica che aveva saputo dolorosamente trasformare i patemi in cellule creative: a partire da un certo Frank Newton che ai primi di agosto del 1987 andò a trovare un amico con la passione dei giocattoli gonfiabili (…) e decise, lì per lì, che una grande banana gialla sarebbe diventata la sua nuova compagna di tifo sugli spalti del ruggente Maine Road, creando così una moda che dilagò ovunque. Erano poi in 28.000 di media a seguire il City in terza divisione, nel 1998-99, e hanno dunque ragione a prendersela se si dà loro dei parvenu solo perché ora hanno soldi in misura uguale alla passione. A proposito di soldi, attendiamoci qualcosa di vistoso da quelli dello United, sempre inviperiti contro la proprietà: anche se le proteste recenti, fatte  in favore di telecamera o post, hanno intristiso chi sperava che certi malanni continentali non si infiltrassero nel Regno Unito. Dove, tradizionalmente, alle avversità si reagiva col celebre stiff upper lip, il labbro superiore irrigidito in uno spasmo muscolare di contegno e disprezzo reattivo: ora invece prevale l’isteria fumogena e piagnona, prevale il paradosso di tifosi che chiedono il boicottaggio degli sponsor indossando tute e giacche col marchio degli sponsor stessi. Vero che a Manchester hanno sempre fatto presto a scendere in piazza: lo fecero 3.000 tifosi United nel 1930, per chiedere alla proprietà che fine avessero fatto i soldi dei cospicui incassi, e lo fecero 20.000 tifosi del City nel 1949, alla notizia del contratto al portiere Bernd ‘Bert’ Trautmann, ex prigioniero tedesco di una guerra troppo vicina. Si placarono, ma non del tutto, quando ad accogliere pubblicamente Trautmann fu il capitano Eric Westwood, uno che in teoria avrebbe potuto sparargli cinque anni prima, durante lo sbarco in Normandia. Una guerra iniziata, tra l’altro, a Danzica, ma guarda.