Massimo Podenzana in una cartolina dell'epoca (foto LaPresse)

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La maglia rosa è il centro del mondo

Marco Pastonesi

Massimo Podenzana ricorda i suoi nove giorni da primo in classifica al Giro d'Italia del 1988

Giro d’Italia 1988. La quarta tappa era moltiplicata per due: la mattina, la Vasto-Rodi Garganico, di 123 chilometri, e il pomeriggio, la Rodi Garganico-Vieste, di 40 chilometri, a cronosquadre.

 

Massimo Podenzana aveva 26 quasi 27 anni, il dorsale numero 26 e un palmares ancorato allo zero. “Franco Cribiori, il direttore sportivo dell’Atala, mandava all’attacco me e Maurizio Vandelli, i due più giovani della squadra. Mi considerava giovane, anche se non lo ero, ma solo perché passato tardi al professionismo. Scatti e controscatti, prove e riprove, finché andai via da solo e il gruppo mi abbandonò al mio destino. Un minuto di vantaggio, due, tre, quattro, cinque. Spingevo, ci credevo, frullavo, speravo, volavo. Staffetta dei motociclisti davanti, ammiraglia di Vincenzo Torriani dietro. Pedalai fino all’ultimo metro. Tagliai il traguardo alzando le braccia al cielo e inviando baci al mondo. Ero già felice di aver vinto la tappa, ma conquistai anche la maglia rosa. E mi sembrò tanto, tantissimo, fin troppo”.

 

E pensare che, da piccolo, Podenzana preferiva il calcio al ciclismo. “Ma mio padre aveva corso in bicicletta e la sua passione finì per contagiarmi. A 11 anni cominciai per scherzo, poi continuai per divertimento, infine trasformai l’impegno e la disciplina in lavoro. Cronoman, da dilettante. Gregario, da professionista. Pianura, distanza. Poche parole, molto fiato. Fino a quel giorno di sole, il palco, il podio, le miss, i fiori, la maglia, la tv, Adriano De Zan. La notte, in camera con Mario Noris, un bergamasco, non chiusi occhio. Tenni la maglia rosa accanto a me, come se la potessi smarrire, come se qualcuno potesse rubarmela. Il giorno dopo mi sentii al centro dell’attenzione del Giro, dell’Italia, del mondo. Ero la maglia rosa, ero lo spezzino Podenzana. La gente che mi guardava, che mi applaudiva, che mi chiamava. Sapevo che sarebbe stato impossibile tenere la maglia fino alla fine. Sapevo anche che, ma non durante la corsa, avrei dovuto tenere i piedi per terra”.

 

Il primo assalto alla sua maglia rosa già il pomeriggio, nella cronosquadre. “Non eravamo preparati, o forse non eravamo adatti, ci classificammo fra gli ultimi, e la Del Tongo di Giupponi, Chioccioli e Saronni ci rifilò più di due minuti e mezzo. Mantenni il primato per un paio di minuti sul polacco Piasecki e sullo stesso Saronni. Poi, prendendo i giorni come se non ce ne fossero altri e le tappe come se fossero sempre l’ultima, riuscii a salvare la maglia rosa per nove giorni. A Campitello Matese Chioccioli mi arrivò a 45 secondi. Nella Carrara-Salsomaggiore, dopo la Cisa, a Borgotaro, caddi e inseguii, ma nel gruppo trovai aiuti sinceri e alleanze disinteressate, ebbi l’impressione che il gruppo mi stimasse, o addirittura che volesse bene. Finché nella dodicesima tappa, la Novara-Selvino, 205 chilometri con tanto di Valpiana, Resegone, Berbenno e Selvino, attaccato dalla Del Tongo, a bagnomaria fra fuggitivi e gruppo, da solo, morendo ma mai mollando, ci lasciai penne e primato. Tappa all’americano Hampsten, maglia a Chioccioli”.

  

“Pode” – nel ciclismo i cognomi lunghi vengono inesorabilmente amputati – avrebbe poi corso fino a quarant’anni fino a diventare uno dei gregari più solidi e fedeli di Marco Pantani, presente nella doppietta Giro-Tour del 1998. “La salita più dura? Il Mortirolo. La discesa più pericolosa? Non lo so, tiravo i freni. La cotta più terribile? Così tante che non le ricordo più, ma le crisi fanno parte del mestiere. Sulla bici sono cresciuto, alla bici mi sono incorporato, finché mi è entrata nel cuore. Smesso da corridore, ho continuato da direttore sportivo. Le tre regole da insegnare? La prima, il rispetto degli avversari. La seconda, il rispetto per se stessi, che significa sacrifici e rinunce. La terza, il piacere, perché se non c’è il piacere allora non c’è neanche la voglia, e se non c’è neanche la voglia allora non c’è più neanche la passione, e se non c’è più neanche la passione allora è meglio non imbrogliarsi e smettere. Certo, bisogna sapere che in bici ci sono più momenti difficili che non felici, ma è una questione – appunto – di cuore”.

 


  

Al Giro d’Italia del 1931, il 10 maggio, debuttò la maglia rosa come simbolo del primato nella classifica generale. Novant’anni dopo, per celebrarla, raccontiamo brevi storie legate a quei giorni da numeri 1. Qui trovate la prima puntata.

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