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"Quella maglia rosa mi faceva venire la pelle d'oca"

Marco Pastonesi

Enrico Paolini racconta i tre giorni nei quali vestì il simbolo del primato al Giro d'Italia. "Mi ha fatto sentire più importante, più alto, più bello"

Al Giro d’Italia del 1931, il 10 maggio, debuttò la maglia rosa come simbolo del primato nella classifica generale. Novant’anni dopo, per celebrarla, raccontiamo brevi storie legate a quei giorni da numeri 1.

  


 

Giro d’Italia 1971. Il prologo, Lecce-Brindisi, una specie di cronostaffetta ininfluente per la classifica. La prima tappa, Brindisi-Bari, finì in volata: Marino Basso. La seconda tappa, Bari-Potenza, 260 chilometri in quasi otto ore, la corsa esplose.

 

“Fuga. Fuga di quelle buone, di quelle decisive. Fuga a cinque: Gianni Motta, Franco Bitossi, lo svedese Gosta Pettersson, che poi avrebbe vinto il Giro, Michele Dancelli e io. Fuori, dei grandi, Felice Gimondi, che non poteva neppure inseguire, perché Motta era della sua stessa squadra. Chissà come ne soffriva, chissà come si struggeva. Intanto, davanti, cambi regolari, ma io no, io non tiravo, perché della mia squadra, a tirare, c’era già Dancelli. E più ci avvicinavamo al traguardo, meno mi staccavo dalla ruota di Motta. Era il più pericoloso. E infatti, a un paio di chilometri dall’arrivo, su uno strappetto, scattò. Dancelli mi fece segno di andargli dietro. E io andai su Motta. Lo inseguii, lo ripresi, mi riattaccai alla sua ruota. Finché, a duecento metri dallo striscione, lo saltai, lo staccai e vinsi. Tappa e maglia rosa”.

 

Enrico Paolini da Pesaro è di quella generazione (lui nato lo stesso anno: il 1945) oscurata, soffocata, immolata da Eddy Merckx. Una vittoria, in quegli anni, ne valeva dieci. Una maglia rosa, in quell’epoca, ne faceva un eroe, e dava un senso non solo a una carriera di un corridore, ma alla vita di un uomo. “La prima bici: quella di mio padre. Grigia, normale, freni da turismo, senza cambio, con i parafanghi. Ci andavo in giro, da solo o con gli amici, nella zona di Santa Maria delle Fabbrecce, e me la cavavo. La prima bici da corsa: regalata da mio padre Aldo. Era una Bianchi, di quel colore lì, verde acqua. Gli era costata 45 mila lire, una mezza fortuna. Lui faceva un po’ di tutto, dal muratore al ferraiolo, cioè legava le gabbie per i pilastri. Avevo 15 anni. La prima uscita: incontrai un gruppetto della Società ciclistica Rinascita di Pesaro. Mi unii al gruppetto. Da Pesaro a San Marino, una sessantina di chilometri, e ritorno, un’altra sessantina. Sulla Panoramica allungai, li staccai, poi li aspettai. E così mi iscrissi alla loro società. Ma c’era da sostenere la visita medica. Andai dal medico sociale, mi guardò, mi controllò, poi disse che non ero idoneo. Avevo il torace troppo piccolo. ‘Ritorna fra due mesi’, e mi consigliò di dedicarmi alla ginnastica svedese. Tornai a casa e piansi di dolore. Invece di eseguire gli esercizi prescritti – allargare le braccia per allargare anche il torace -, cercai un altro medico. Trovai il medico condotto, quello della mia famiglia, che era anche medico sportivo. Mi guardò, mi controllò, mi visitò, poi disse che era tutto a posto. E così mi tesserai”.

 

Fu l’inizio di un film lungo vent’anni. E quella maglia rosa giustificò, valorizzò, immortalò tutto. “La sera, in albergo, in camera, stesi la maglia sulla poltrona per rispetto e ammirazione. Poi, Potenza-Benevento, difenderla fu facile: si finì in volata. Poi, Benevento-Pescasseroli, difenderla fu semplice: andò via una fuga. Poi, Pescasseroli-Gran Sasso, difenderla fu impossibile: staccato, non rientrai. Ma pazienza, tre giorni in maglia rosa mi avevano fatto sentire più importante, più alto, più bello. Quella maglia mi faceva venire la pelle d’oca”. Più importante, ma non per tutti. “Adriano De Zan, il telecronista, mi liquidava con due domande, poi aveva i suoi corridori. Vincenzo Torriani, il patron, aveva altri pensieri, e poi comunque metteva soggezione. Però c’erano i giornalisti. Il mio preferito era Gianni Mura. Veniva a trovarci in albergo, dopo la cena. Ci si metteva a chiacchierare, un po’ di ciclismo, un po’ dei luoghi, delle famiglie, del mangiare e del bere, insomma, della vita”.

 

Paolini, undici anni da professionista (tutti nella Scic) e undici Giri d’Italia, una trentina di vittorie fra cui sette tappe al Giro e tre titoli di campione d’Italia, ne avrebbe da raccontare. A cominciare da Merckx, il Cannibale. “Era un’iradiddio. Ma era anche un amico. Ed era così forte e così onesto che mancargli di rispetto – in corsa, s’intende – sarebbe stato un disonore. Trofeo Laigueglia 1974. Merckx evase, da solo, dal gruppo. Dietro, al suo inseguimento, mi lanciai, da solo, io. Giorgio Albani, direttore sportivo di Merckx nella Molteni, lo frenò: ‘C’è Paolini a 30 secondi. Aspettalo’. Merckx, contrariato, mi aspettò, poi, imbronciato, ricominciò a tirare. Trecento metri lui, cento io. Trecento lui, cento io. Trecento lui, cento io. Finché mi avvertì: ‘Enrico, non fare il furbo’. ‘A me basta arrivare secondo’, gli giurai, ed era vero. Il secondo dietro Merckx – si diceva - è il primo degli umani. Senonché Ernesto Colnago, dall’ammiraglia della Scic, mi ordinò: ‘Di’ a Merckx se ti lascia vincere’. Come chiedere al boia di farsi ammazzare. Mi feci coraggio e glielo chiesi. Merckx mi guardò incredulo, poi per essere chiaro rispose di no, e già che c’era mi comandò: ‘Tu mi tiri la volata’. Gliela tirai. Se non lo avessi fatto, avrei smesso di correre”.

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