Florentino Pérez, imprenditore spagnolo e politico, dal 2009 è presidente del Real Madrid (Ansa) 

Florentino Pérez, l'oligarca di Spagna

Stefano Cingolani

La politica, i colossi finanziari, il calcio e poi l’ultimo azzardo: la Superlega. Chi è davvero il presidente del Real Madrid

Don Chisciotte che sfida i mulini a vento? El Cid Campeador che cavalca contro i mori? O forse José de la Vega che spiegava la borsa di Amsterdam con una icastica definizione: confusión de confusiones? Florentino Pérez che è un uomo ben istruito, deve aver passato in rassegna i miti culturali della sua Spagna mentre venivano a galla i magheggi del più iconico spettacolo mondiale e cadeva il suo più ambizioso castello di carte: la Superlega di calcio. Il predecessore al vertice del Real Madrid, Ramòn Calderòn, lo ha pugnalato e con che scherno: “Penso che Florentino avesse bevuto un paio di bicchieri di vino in più perché dire che viene a salvare il calcio mi sembra uno scherzo. Lui stesso ha coinvolto il Real Madrid in un progetto multimilionario di cui non sappiamo nemmeno quanto costerà lo stadio, il che non era certo necessario farlo”.

 

È pura invidia, soltanto vecchie ruggini, cambiali che vengono a scadenza? Per capirlo proviamo a gettare un’occhiata nell’impero dell’oligarca di Spagna il quale possiede un patrimonio che, secondo Forbes, supera i due miliardi di dollari, guida il gruppo Acs con un fatturato di 39 miliardi di euro e presiede una squadra di calcio che è un pilastro dell’establishment. La pandemia lo ha colpito duramente. Il Real Madrid è con l’acqua alla gola. Abertis che gestisce gran parte delle autostrade spagnole perde chilometri e concessioni. Acs è impiombato dal Covid. E i debiti salgono inesorabili. La lunga marcia, anzi la grande corsa, sembra arrivata al capolinea, ma guai a sottovalutare don Florentino: non manca certo di audacia né di fantasia, come ha dimostrato durante tutta la sua carriera tra politica, sport e soprattutto affari. La piramide di Pérez ha un vertice sottile come è costume nel capitalismo del Vecchio continente; chissà perché le chiamano scatole cinesi, ormai sono a tutti gli effetti i contenitori che racchiudono i patrimoni della finanza europea.

 

Dunque, in cima c’è la cassaforte personale chiamata Rosan Inversiones, che controlla a cascata altre tre società: due aziende di dimensioni relative chiamate Luyaroll (immobiliare) e Fioma Aviaciones (aerei in affitto) e poi quella più importante la Inversiones Vesan nella quale è racchiuso il 12,5 per cento di Acs di cui Perez è presidente esecutivo nonché primo socio. Il gruppo possiede il 30 per cento della società Abertis, operante nelle infrastrutture a livello mondiale controllata oggi con il 50 per cento più una azione da Atlantia (famiglia Benetton) la quale a sua volta possiede (ancora) l’88 per cento di Autostrade per l’Italia. Il resto è in mano a Hochthief il grande gruppo tedesco delle costruzioni del quale l’Acs controlla i due terzi delle quote, insomma un groviglio di incroci azionari. Ma come e quando è cominciata la irresistibile ascesa di don Florentino?

 

Nato a Madrid nel 1946, laureatosi in Ingegneria, nel 1975 quando Francisco Franco muore e la Spagna apre la porta alla democrazia, Pérez entra in politica, nell’Uniòn de Centro Democratico guidata da Adolfo Suarèz, e si distingue immediatamente: delegato dei servizi ambientali del Consiglio comunale di Madrid tra il 1976 e il 1979 e poi, con un balzo non indifferente, vicedirettore generale della promozione del ministero dell’Industria e dell’Energia tra il 1979 e il 1980, direttore generale delle infrastrutture del ministero dei Trasporti nel biennio 1980-81, un ruolo che gli consente di sviluppare una notevole rete di contatti di primissimo livello. Nel 1982 viene nominato presidente dell’Istituto Nazionale di Riforma e dello Sviluppo Agricolo (Iryda) del ministero dell’Agricoltura. Ma l’anno successivo, poco dopo la vittoria elettorale del Psoe di Felipe Gonzalez, Pérez abbandona l’amministrazione pubblica.

 

Con i socialisti preferisce trattare dall’esterno e si lancia nel mondo degli affari là dove è più vicino alla politica, contiguo, quasi simbiotico, cioè l’edilizia, precisamente le infrastrutture delle quali il governo è signore, munifico in genere verso gli amici degli amici o comunque verso i potenti. Così, assieme a un gruppo di ingegneri a lui vicini, acquista la Construcciones Padros, società in difficoltà che sarà il primo nucleo del futuro colosso ACS. Dallo stato al business senza soluzione di continuità. Modello oligarca come in tutti i paesi passati dalla dittatura alla democrazia o, nel caso dell’est europeo, a quella che vien chiamata democratura? Non esattamente, ma certo anche in Spagna la caduta del regime autoritario è stata l’occasione diretta per creare nuove ricchezze. L’Acs, acronimo per Actividades de Construcción y Servicios, viene fondata nel 1997 attraverso la fusione di Ocp construcciones (a sua volta nata nel 1993 dalla fusione di Construcciones Padròs con Ocisa, società che raggruppava le imprese del Banco Hispano Americano y Urquijo) e Ginés Navarro Construcciones, società della famiglia March. Nel 1999 rileva Onyx Scl (settore ambientale), nel 2000 entra in Xfere e Broadnet (telecomunicazioni), nel 2003 acquisisce Dragados S.A. (idraulica e ingegneria civile).

 

Nel 2007 l’Acs acquista il 25,7 per cento nella società tedesca Hochtief, tra le aziende leader al mondo nello sviluppo delle infrastrutture con una forte presenza negli Stati Uniti, Europa centrale, Australia, sud est asiatico. Nel 2011 sale al 50,16 per cento, e cinque anni dopo arriva al 70 per cento del capitale. I grandi progetti accompagnano la bolla immobiliare spagnola fino al crollo del 2008-2010. Dighe, autostrade, grattacieli in patria e all’estero, soprattutto nelle Americhe. Ma una spinta viene anche dal calcio. Don Florentino è abile, ha fiuto, visione, grande intelligenza imprenditoriale condita con le giuste connessioni. E una inestinguibile ambizione che viene premiata nel 2000 con la presidenza del Real Madrid, la squadra coronata e quella che incorona. È più che una medaglia, più di una insegna nobiliare, è il sigillo del successo e il predellino del vero potere. Il Real così come il Barcellona, l’Atletico e l’Osasuna, è dal 1990 una società sportiva senza fini di lucro, qualsiasi socio può presentarsi come candidato alla presidenza con la sua giunta, che formerà il governo della società per i successivi quattro anni. C’è una vera e propria campagna elettorale, con il candidato che si presenta (anche in tv) con un programma, promesse elettorali sotto forma di acquisti di giocatori, sfide televisive.

 

L’unica discriminante è che il candidato deve avere alle spalle garanzie bancarie che possano coprire in parte gli eventuali prestiti. Pérez ha vinto tre elezioni. Con i suoi galacticos (Zidane, Fico, Beckham, Ronaldo il Fenomeno) il Real diventa il numero uno, mai così forte dai tempi di Di Stefano e Puskas. Non basta. Don Florentino è un costruttore e non solo di sogni. Lo stadio viene ristrutturato e al posto del vecchio centro di allenamento, la Ciudad Deportiva, sorge la nuova cittadella di Valdebebas. È solo una delle numerose operazioni immobiliari, con le quali i lotti cambiano di mano e di destinazione d’uso a cominciare dal 2001. Quando Pérez diventa per la prima volta presidente, il Real ha un passivo di 277 milioni, ma arriva in suo aiuto il comune che rende edificabili le aree dei campi d’allenamento. Sui terreni vengono innalzate le Cuatro Torres, cioè i quattro grattacieli progettati da archistar tra i quali Norman Foster, che formano il nuovo centro direzionale madrileno: il club incassa un profitto di 501 milioni di euro, per l’Acs sono anni di lavori. Si oppone solo il partito socialista. Il sindaco, José María Álvarez del Manzano membro del Partito popolare, era lo stesso che nel 1997 aveva negato la conversione a Lorenzo Sanz, predecessore di Pérez alla guida del Real Madrid. Nel febbraio 2006 don Florentino inciampa contro la sete di successo e lascia la poltrona più alta della Casa Blanca “per motivi personali”. Il nuovo club galattico ormai era il Barcellona di Ronaldinho e Messi, tra il malcontento dei tifosi e dei soci del Real. Ma è solo una pausa, tre anni dopo tira fuori dal cappello 264 milioni di euro per comprare in un colpo solo Cristiano Ronaldo, Kaká, Benzema e Xabi Alonso. E vince ancora.

 

 

Altri acquisti eccellenti, secondo la stampa spagnola, sono legati all’attività imprenditoriale, come per esempio il tesseramento del colombiano James Rodriguez accompagna gli affari in Colombia, i campioni tedeschi Ozil e Khedira arrivano nel 2011 quando Acs prende il controllo di Hoechtieff. Operazioni edilizie, merchandising, diritti tv non bastano a rimettere in ordine i conti del Real Madrid. L’indebitamento sale, arriva a 905 milioni di euro, ben più del fatturato sceso da 800 a 600 milioni di euro nell’anno della pandemia. A gennaio è stato acceso un prestito con l’hedhe fund Providence per aggiungere nuova liquidità al club. Così le sponsorizzazioni, eccezion fatta per quella tecnica e commerciale della maglia firmata con Adidas e Emirates, andranno nelle casse del fondo d’investimenti. Poi c’è il prestito da 155 milioni di euro all’1,5 per cento, al quale s’aggiunge una linea di credito a breve termine di 50 milioni. Entrambi garantiti al 70 per cento dall’Istituto ufficiale di credito, banca di stato controllata dal ministero dell’Economia, una operazione “di sistema” perché comunque don Florentino è un pilastro del sistema anche per gli avversari socialisti; e non solo per il calcio, ma per il peso del colosso delle infrastrutture, ancor più importante ora con il piano europeo per la ripresa del quale la Spagna è la maggiore beneficiaria dopo l’Italia con 162 miliardi di euro (69,5 a fondo perduto, superando persino la fetta italiana della torta). Anche la terza gamba del colosso, intanto, comincia a zoppicare.

 

Stiamo parlando di Abertis, che gestisce 1.500 chilometri di autostrade, nata nel 2003 dalla fusione delle due società Ascesa e Aumar che rispettivamente nel 1969 e nel 1974 avevano inaugurato le prime autopistas affidate in concessione a privati e per le quali si paga un pedaggio. Nel marzo 2018, dopo una battaglia in Borsa condotta da più di otto mesi, Atlantia raggiunge un accordo per il controllo di Abertis sulla base dell’offerta più alta (quella di Hocthief-Acs pari a 18,76 euro ad azione). Atlantia entra poi con il 24 per cento in Hochtief. Ma le cose cominciano a non andar più così bene in terra di Spagna. Abertis ha un debito di 23,9 miliardi di euro che s’aggiunge ai dieci miliardi di Atlantia. Pesa la perdita di due concessioni, la Siviglia-Cadice e la Tarragona-Alicante, e un atteggiamento ostile del governo socialista che vuole ridurre le tariffe e impone regole più stringenti sugli investimenti, mentre la pandemia ha fatto scendere i ricavi operativi da 5,4 a 4 miliardi. In questo scenario, don Florentino sceglie il contropiede. Aspi, Autostrade per l’Italia, è in vendita, c’è una trattativa con la Cassa depositi e prestiti, perché non lanciare la palla avanti e non fondere Aspi con Abertis per creare un polo autostradale di taglia europea?

 

In Italia fioccano le proteste revansciste, ma nemmeno il governo vede bene l’operazione: non solo il leghista Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, ma nemmeno Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture. Il Tesoro, azionista della Cdp, finora non si è espresso. Il diavolo, così si dice, sta nei dettagli e questa volta i colpi di coda del tentatore bisogna cercarli a Madrid, nel bilancio di Abertis e nelle fortune di Pérez. Se ha le risorse finanziarie per gli ingenti investimenti previsti nei prossimi anni, le porte d’Italia debbono restare aperte. Ma attenzione, anche dietro la retorica dello sviluppo globale può nascondersi un arrocco proprio come per la Superlega di calcio. L’audacia, come sappiamo, non gli manca, ma questa volta Florentino Pérez s’è fatto prendere dalla fretta, forse per nascondere l’ansia da prestazione o la paura di un presente più fosco del previsto.

 

Guardiamo alla realtà senza nostalgia né demagogia, niente patetiche evocazioni dei patron di una volta, tanto meno appelli ai tifosi in piazza tra hooligan e ultrà tatuati. Il grande calcio dei campioni idolatrati dalle masse è roba da professionisti con tanti quattrini in tasca; dai gladiatori in poi sono cambiate le forme non la sostanza. C’è un mercato europeo affollato e imballato. Un mercato asiatico in espansione e quello nordamericano è ancora tutto da arare, conquistarli diventa una scelta razionale. Più difficile sarà penetrare in sud America, tuttavia da lì arrivano molti super campioni che possono essere destinati a entrare nella futura Superlega. Dunque il progetto non è affatto campato in aria. Il suo limite di fondo è che aveva il sapore di un salvataggio; lo ha ammesso lo stesso don Florentino nell’intervista alla tv spagnola El Chiringuito: o così o moriamo tutti. La speranza di restituire i 3,5 miliardi di euro forniti dalla JP Morgan con gli introiti delle televisioni era quanto meno dubbia, già oggi i diritti tv rappresentano il grosso degli introiti e hanno finito per alimentare la corsa agli ingaggi: il costo della “manodopera” è in media il 60 per cento del giro d’affari, un’assurdità per qualsiasi impresa economica. Il calcio è un business? Non così. Se un giorno un club solido e ben gestito prenderà in mano il testimone, allora potrà nascere davvero il football globale. Adesso ha vinto José de la Vega: confusión de confusiones.

 

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