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Il Foglio sportivo

Roberto Baggio ci parla ancora

Giuseppe Pastore

Elogio di un uomo felice in fuga dall’obbligo di esserci

Un uomo in fuga dall’obbligo di esserci. In fuga dalla liturgia, dalla visibilità – peggio, dal desiderio di visibilità – da ciò che “non si può non fare”, una di quelle orrende doppie negazioni che avvelenano la lingua comune. Un uomo felice dopotutto. Roberto Baggio è scappato via dalla pazza folla ormai da diciassette anni, una fuga squisitamente mediatica e non certo geografica – è ancora lì, sempre allo stesso citofono di Altavilla Vicentina, circondato sempre dalla stessa famiglia meravigliosa che ricordiamo dai giornalini di trent’anni fa, Andreina Leonardo Mattia Valentina, che a tre anni si faceva accompagnare a Eurodisney dal papà in gita a Parigi per ritirare una cosuccia dalla redazione di France Football e oggi lo fotografa di nascosto in giardino mentre carica un Pandino 4x4 reduce da mille battaglie, rendendo eterno per un giorno in più il mito dell’uomo di Caldogno. Non passa settimana in cui un pensiero non ci riporti a lui, che il Baggio dei venticinque anni non si reincarni nell’attesa di un Europeo o meglio ancora di un Mondiale, nei giri della memoria di una Nazionale senza stelle che a giugno sarà chiamata a Roma (forse) a restituirci la nostalgia delle Notti Magiche del 1990 – l’estate in cui l’Italia s’innamorò del Codino, mentre l’attuale ct languiva in tribuna dal basso dei suoi zero minuti in sette partite.

 

Baggio c’è, come le scritte in vernice sui piloni delle autostrade anni Ottanta che si riferivano a tutt’altro – ma non sottilizziamo. Baggio esiste nel trailer di un film Netflix prossimo venturo o in un’intervista a Chloé Zhao, la regista cinese probabile premio Oscar per Nomadland: “Era il mio mito, lo guardavo ai Mondiali e chiedevo: chi è quel ragazzo col codino? Mi ha conquistata la sua sofferenza”. Il 1° aprile, nel giorno dei suoi 75 anni, ci è tornata tra le mani l’autobiografia di Sacchi, che eleva a dilemma esistenziale gli attimi drammatici della sua sostituzione in Italia-Norvegia 1994, subito dopo l’espulsione di Pagliuca, quando Roby gli dà del matto in diretta mondiale. Baggio e Sacchi paiono due giganti: avevo bisogno di qualcuno che corresse per allungare la Norvegia e distanziasse i loro difensori dai centrocampisti, scrive Arrigo, ma Baggio non capì. “Il giorno dopo lo presi da parte e la prima cosa che mi chiese fu: ma lei l’avrebbe sostituito Maradona? E io risposi di sì, che avevo sostituito anche Gullit e Van Basten”.

 

Martedì prossimo saranno trent’anni da quando, già juventino, raccolse una sciarpa della sua amatissima Fiorentina lanciata dal settore distinti, un gesto iconoclasta di cui oggi non sarebbe capace nessun calciatore italiano. Invece il 1° aprile è risuonato il rintocco dei vent’anni del magnifico gol in Juventus-Brescia, un cucchiaino al posto del piede per addomesticare il lancio di un Pirlo ancora imberbe e ignaro di cosa avrebbe combinato dieci anni dopo sulle ceneri di quello stesso stadio dove Chef Roby mescolava da maître chocolatier una palla che era una mousse, girava intorno ai due metri di Van der Sar sdraiato in lungo con un tocco di destro che era allo stesso tempo controllo, dribbling e preparazione al tiro, poi cambiava piede, segnava a porta vuota. Poi si sa come funziona YouTube, non fai in tempo a distrarti che è già partito il video successivo: gol chiama gol, stop a seguire chiama stop a seguire, e dunque scorrono uno via l’altro i prodigi di quella portentosa rentrée della primavera 2001. Fino a marzo aveva segnato appena due gol con il Brescia, tutti e due proprio a Firenze, ma da aprile iniziò un periodo celestiale, i Giorni del Cielo di Roberto Baggio: tacchi, carezze, pallonetti, gol direttamente da calcio d’angolo (a Lecce), gesti tecnici che proclamavano, con la forza tranquilla del fiume che scorre, l’idea di voler esserci ai Mondiali in Giappone (e invece Trapattoni). Sommati, questi video hanno milioni di visualizzazioni e centinaia di commenti di gente da tutto il mondo che pensa continuamente a Baggio, anche vent’anni dopo.

 

La forza bruta di Haaland, Mbappé, Ronaldo e a volte persino di Messi non alberga in nessuno degli oltre trecento gol in carriera di Roberto Baggio, tutti contraddistinti da una magica precisione. L’incrollabile certezza che un lavoro di fino abbia lo stesso effetto di qualunque randellata, però più bello: e perciò venga anche premiato con il bacio della grazia, come una versione di Hey Jude cantata da Caetano Veloso (perdonaci Roby se ci fai venire in mente un brasiliano). Nel calcio si parla spesso di arte, e spesso a sproposito: ma se una delle caratteristiche dell’arte pura è la gratuità, non c’è nulla di più gratuito, nulla di meno costoso del calcio di Baggio, che non desiderava altro che sparire, nascosto dietro la propria firma. Abbiamo avuto bisogno della sua assenza luciobattistiana per ammirarne e rimirarne la calma tenace nel tornare in piedi da catene di infortuni che ancora oggi stroncano carriere molto più chiassose della sua. Il suo è un tacere che parla tutti i giorni, soprattutto se confrontato con il rumore degli altri: la bulimia mediatica della famiglia Totti, le insipide apparizioni da oltreoceano di Alex Del Piero che nulla aggiungono alla grandezza del calciatore, o peggio le sguaiate dirette Instagram di Vieri e Cassano. Baggio invece apre bocca solo quando riesce a migliorare il silenzio.

 

È una frase che ha detto lui stesso nell’unica intervista stampata che ha concesso nell’ultimo anno, a Vanity Fair, significativamente rilasciata a Cesare Cremonini, l’uomo che ne ha cantato la nostalgia e poi il senso di Baggio che è in ognuno di noi tutte le volte che non siamo all’altezza, in una delle canzoni italiane più belle dell’ultimo decennio (Nessuno vuole essere Robin). 17 milioni di visualizzazioni su Youtube e 20 milioni di ascolti su Spotify riproducono all’infinito versi che sembrano usciti direttamente dal vecchio tv-color acceso nella penombra del salotto e sintonizzato sui rigori di Pasadena: “Ti sei accorto anche tu che siamo tutti più soli? Tutti col numero dieci sulla schiena, e poi sbagliamo i rigori”. Baggio ci parla ancora: ma in tutto questo casino, per distinguerne la voce, bisogna ascoltare attentamente.

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