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Dura lex sed Alex

Schwazer non si dopava, fu incastrato. Il giudice lo dice con cinque anni di ritardo

Roberto Perrone

Per il gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino, il marciatore altoatesino non ha "commesso il fatto”. Gogna mediatica e macchina del fango hanno fatto il loro dovere, ma almeno lo sport riabilita con un rilievo adeguato e non solo con due righe in cronaca

Com’è triste la giustizia, cinque anni dopo. Tanto c’è voluto per riconoscere l’innocenza di Alex Schwazer l’ex fidanzatino d’Italia e di Karoline Kostner, che lo mollò dopo il primo scandalo nel 2012, quello per cui il marciatore oro nella 50 km di Pechino 2008 accettò la pena, confessando i suoi peccati e pure la brutta aria che tirava nell’atletica italiana e mondiale. Senza tralasciare nulla. E forse per questo è stato vittima di un “complotto”. Non lo diciamo noi, garantisti incalliti, ma il gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino, che ha disposto l’archiviazione del procedimento penale a carico del marciatore altoatesino per “non aver commesso il fatto”. In 87 pagine distrugge i tentativi di sostenere la correttezza del lavoro da parte della Wada, l’agenzia internazionale antidoping, e dell’allora Iaaf (oggi World Athletics), non risparmiando critiche anche al pubblico ministero Bramante, che pure ha chiesto l’archiviazione. Pelino scrive che qualcuno si è macchiato di “falso ideologico, frode processuale” e parla apertamente di “alterazione dei campioni di urina”.

   

A leggere in rete, pare che nessuno abbia dubitato della sua innocenza dal 2016, quando Schwazer venne fermato prima dell’Olimpiade di Rio. Tutti innocentisti? Non risulta. Sandro Donati, allenatore di Schwazer, infatti parla di “cinque anni di battaglia durissima nel silenzio più totale del mondo sportivo, a parte il presidente Malagò e, negli ultimi tempi, della Federatletica”. Per il resto gogna mediatica e macchina del fango hanno fatto il loro dovere, ma almeno rispetto alla politica e alla cronaca, lo sport tende a riabilitare con un rilievo adeguato e non con solo due righe in cronaca.

   

Certo, questa è una storia strana fin dall’inizio, con quel controllo a sorpresa alle 6 di mattina del 1° gennaio 2016. Due ispettori bussano a casa Schwazer a Calice di Racines e sulle provette scrivono il luogo del prelievo. Come se lassù vivessero centinaia di atleti. Schwazer, nel dicembre 2015, aveva appena vuotato il sacco, non lesinando nomi e situazioni. A questo si erano aggiunte le sue prestazioni. Voleva sbancare Rio, otto anni dopo Pechino. Invece gli otto anni glieli hanno dati di squalifica. La macchina del fango ha toccato pure Sandro Donati, uno dei grandi accusatori, dopo Zdenek Zeman, dell’antidoping farlocco a cavallo degli anni 2000. Schwazer si era affidato a lui per riprovarci. “A me, che lo indicai all’Agenzia Mondiale antidoping, tra una serie di sospetti. Eppure Alex scelse proprio chi lo aveva messo nei guai per risalire”. Sarebbe come se Piercamillo Davigo rappresentasse un condannato per tangenti. “Hanno voluto colpire entrambi, mi hanno fatto passare o per fesso o per complice; non sono nessuno dei due” denuncia il prof. 

   

E ora? La giustizia ordinaria non conta per quella sportiva. Per tornare a sognare una medaglia o la semplice partecipazione all’Olimpiade, Schwazer può solo avanzare una richiesta di grazia al Cio, sperando che, dopo quanto stabilito dal giudice di Bolzano, costoro si ravvedano. Dovrebbero farlo anche i pasdaran del fango, delle condanne sommarie e delle prove inconfutabili. A un anno dalla riabilitazione di Filippo Magnini, squalificato per quattro anni, tornato in vasca a novembre 2020, pure lui in cerca di un pass olimpico, ecco un’altra assoluzione eccellente. Bisognerebbe cominciare a ripensare la giustizia (sportiva e ordinaria) e l’uso delle prove. Le provette, come le intercettazioni, non sono il Vangelo, si possono manipolare. Per questo i media, prima di sguazzare nella melma, dovrebbero fare mente locale.

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