I gradi tra noi e Maradona

Antonio Pascale

El Pibe non sarebbe diventato quello che è senza Napoli. Cosa vuol dire io c’ero

Per molti anni – e non solo al sud – abbiamo chiamato in causa di Maradona. Accadeva di frequente e in modo spontaneo. Un po’ come si usa fare con santi e gli Dei. Così, noi ragazzi parlavamo del più e del meno, di cose sensate o stupide, problemi reali e sistemi raffinati di pensiero e chiamavamo in causa Maradona. Un po’ come dire San Gennaro (o Maria Vergine o Gesù o altri) pensaci tu. Del resto, come i santi o gli dei, Maradona era fatto apposta per le agiografia. Erano orali e popolari, e s’erano formate non post morte ma in vita, anzi in diretta. Non era neanche arrivato e c’era chi diceva che Maradona aveva salvato la vita di qualcuno, chi sottolineava di quanto Maradona fosse amato e rispettato ovunque.

 

Ricordo un racconto di un cinefilo casertano. Diceva che Marlon Brando, attore maledetto, non permetteva a nessuno di avvicinarsi alla sua isola (non mi ricordo dov’era) tranne che a Maradona. Sì, accadeva davvero frequentemente. Il fenomeno riguardava anche gli atei come il sottoscritto che tuttavia sembravano cedere con molta allegria a questa sorta di istinto religioso, un po’ fanatico, un po’ magico (e molto meraviglioso) che Maradona portava con sé. Insomma, è tutto uno schifo, è tutto un casino, ci sono i problemi, alcuni irrisolvibili ma meno male che c’è Maradona, vedrai che cambierà. Non nego che in quegli anni, in molti, diciamo quelli un po’ più fissati con la politica, capovolgevano l’affermazione suddetta: c’abbiamo i problemi, alcuni irrisolvibili e questi pensano a Maradona, ma che vuoi che cambi così. Però, nell’uno o nell’altro caso, Maradona c’era. Citato, raccontato, spiegato, ammirato, osservato, odiato. In fondo, accanto ai murales che in ogni angolo scalcinato del mondo lo raffigurano, basta vedere la quantità di persone e di diversi strati sociali, cultura, religione, interessi, schieramenti che tra ieri e oggi, davvero dispiaciuti, in lutto, stanno postando foto di Maradona o con Maradona. Non mi sorprende, anzi mi sembra un epilogo naturale.

 

Nel corso degli anni, diciamo tra metà degli anni ’80 in poi, ho visto tanti baristi, ristoratori, tassisti, esporre foto, e ben incorniciate, di Maradona. Non solo a Napoli, ma, faccio per dire, anche nella via in cui abito, a Roma, c’è un ristorante tipico che all’ingresso espone una foto di Maradona. Accanto a una Vergine, non so quale. Il proprietario si vanta di essere stato amico di Maradona e racconta delle volte in cui l’ha visto: un uomo generoso – dice – elargiva grosse mance. Il fatto è che i gradi di separazione tra te e una qualunque persona, fosse anche il neo eletto Biden, sono sette, dicono gli statistici. Tranne con Maradona. In quel caso ne bastano molti meno, un paio. Conosco persone che ci uscivano, c’andavano alle feste, a cena, tiravano cocaina con lui e lo riportavano a casa, strafatto. E come non ricordare quelli che ho sentito dire: io c’ero. C’ero il 5 luglio del 1984 al San Paolo quando Maradona fu presentato al popolo, c’ero quando segnò, su punizione, in area, quel meraviglioso goal contro la Juve, c’ero alla festa dove ho visto Maradona pippare cocaina, c’ero negli spogliatoi, c’ero in campo. E quelli che dicono, sì d’accordo c’eravate ma non avete mai visto Maradona mentre si allenava, quello l’ho visto solo io, mica con la palla, ma con un limone, una mela, o altro.

 

Quando Maradona arrivò, a Napoli c’erano ancora i tubi innocenti che sostenevano una parte della città, dopo la botta del terremoto. C’erano ancora i contrabbandieri con gli scafi blu, e i bancarielli con le popolane che vendevano le sigarette, stile Sofia Loren. Le inchieste televisive puntavano sui quartieri spagnoli con i soliti panni appesi e gli scugnizzi che impennavano sulle vespe (pure adesso). E c’era la camorra (pure adesso). Stava cambiando status. Certo, si occupava di contrabbando, ma, post terremoto, gli infiltramenti nelle trame della politica erano aumentati, e grazie ai soldi della ricostruzione le famiglie camorristiche stavano entrando nel mondo della droga, con più forza. Insomma, c’era ancora una città povera, incasinata, accaldata, un bailamme di lingue, di stili. Da una parte fragile e inquinata da una parte desiderosa di lasciarsi la fragilità e l’inquinamento alle spalle. Eduardo de Filippo era ancora vivo, e sulla scena napoletana la sua presenza si sentiva, nel bene e nel male. Massimo Troisi stava per uscire con il film non ci resta che piangere, Pino Daniele era invece al suo primo Live, Sciò live, appunto, e comunque in un decennio aveva studiato, integrato varie linee melodie e sonorità, dagli Appennini alle Ande, per così dire. Anche per questa vivacità intellettuale, Napoli almeno nelle discussioni teoriche, sembrava un avamposto, una volta del Sud Italia, una volta del Sud del mondo, una volta del mediterraneo intero. Insomma, il fermento c’era, le basi su cui poggiarsi anche, ci voleva un catalizzatore.

 

Ed arrivò Maradona.

 

Qualcuno sostiene che fosse un alieno, uno venuto da un altro pianeta a portare felicità e spontaneità calcistica, ma non è vero: era vicino a noi. Anche somaticamente. Non certo alto, un po’ scavato, scugnizzo, con quelle collanine al collo. Insomma, vedevi Maradona, poi ti giravi e ti scoprivi circondato da centinaia di Maradona, certo in minore, ovvio, ma il soma era quello. Poi era allegro, sorridente, molto generoso, incoraggiava i compagni, faceva squadra, rafforzava il contesto, prendeva calci e si rialzava. Era partito dal fango, aveva giocato nel fango e anche per beneficenza. Come nella celebre partita ad Acerra, in uno sterrato, per raccogliere soldi e permettere a un ragazzo povero di operarsi. I soldi erano stati raccolti, la squadra poteva firmare qualche autografo, due pacche sulle spalle e andare via. E invece si giocò. Contravvenendo alle indicazioni dei dirigenti, e anche dei famosi Lloyd's di Londra. Chi se ne frega – disse. Pagò la penale e giocò nel fango. Per Maradona non c’era alcuna differenza tra una partita di campionato, una finale dei mondiali, un’amichevole nel fango. Del resto da lì veniva, dal fango. Voleva vincere e non deludere chi era venuto a guardarlo. Naturalmente, ho conosciuto persone che mi hanno detto: io c’ero, quel giorno. Mi hanno raccontato che Diego giocò, buttandosi nel fango, fino a realizzare un gol stupendo. Partì dalla tre quarti destra, arrivò in area di rigore – con le solite magnifiche finte di corpo, si liberò di due calciatori, mise il portiere a sedere e niente, gol a porta vuota. E poi cadde anche lui nel fango.

 

Pensate quello che volete ma Maradona era così, e noi lo avvertivano. Aveva faticato s’era allenato tanto con il suo preparatore atletico personale, Fernando Signorini. Queste qualità nascondevano un intento, all’inizio nemmeno tanto dichiarato: fare la scalata, portare la squadra da quella posizione di metà classifica, senza infamia e senza lode, su, in alto. Non era importante solo per Napoli, era importante per lui, per questo il dialogo tra giocatore e città era perfetto. Andare a Torino, nel campo di proprietà degli Agnelli ed espugnare la città, per lui era motivo di orgoglio. Gli eravamo grati, ci sentivamo vicino a lui, pure noi nel fango, ma pure noi con qualche genialità e scaltrezza che era ora di mostrare. Ovvio, a quel punto, una partita vinta non regala solo i due punti (allora erano due) ti suggeriva l’idea del riscatto. Appunto, le basi per scalata c’erano e scalata sia. Scalata è stata. Per accompagnare il tragitto abbiamo inventato filastrocche, canzoni, racconti agiografici e l’abbiamo circondato, di baci, abbracci, affetto, amore sviscerato, dichiarazioni poetiche e meno poetiche.

 

Alla fine, è imploso e la città ha fatto finta di non accorgersene. Quando l’abbiamo capito era tardi. Perché? Perché eravamo un po’ come lui, sì, c’era Pino Daniele, Massimo Troisi, una scena teatrale di tutto rispetto, c’erano filosofi ed eccellenze ma c’era pure la camorra, la cocaina, la vita facile e quella maledetta. Che errore credere per il riscatto bastava solo uno, Maradona. E noi potevamo limitarci a guardare ed applaudire. A far finta di niente se la situazione peggiorava. La città aveva le basi, ma non era forte, o meglio si appoggiava per il riscatto sulla fragilità atavica. C’era sempre quel fango di cui sopra. A volte uno ti alzavi e tu con lui, spesso ti risucchiava, così è stato. Il 5 luglio nel 1984 feci tre cose, la mattina mi presi la patente, poi di seguito affrontai la seconda prova dell’esame di maturità e nel pomeriggio partimmo con una mini 90 da Caserta diretti al San Paolo. Volevamo vedere questo Maradona. Rimanemmo bloccati sulla tangenziale. Che sconforto. Che schifo di città, dicemmo, e maledicemmo tutti. Poi piano arrivammo, troppo tardi, tutto pieno, nemmeno riuscimmo a parcheggiare. Ricordo prendemmo un caffè, a un bar vicino lo stadio e a un certo punto sentimmo un boato, poi delle vibrazioni. Il terremoto pensammo. E invece no, era Maradona che stava palleggiando. Ci guardammo a lungo, io e il mio amico, ridemmo, dicemmo: madonna mia, e questo fa crollare lo stadio. Certo, non l’abbiamo visto Maradona né conosciuto, l’abbiamo sentito. Tornammo, parlammo d’altro, della prova orale di maturità credo, poi il mio amico disse: vuoi vedere che lo sente tutto il mondo ‘sto terremoto? E poi aggiunse: speriamo che poi non crolli tutto, basta un attimo.

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