Valentino Rossi è tornato eccezione

Giovanni Battistuzzi

Nel motomondiale era entrato con un uragano, aveva riscritto regole e comportamenti. Ha vinto molto, diventando lui stesso norma. Ora, a 42 anni e su una moto non ufficiale, il Dottore è ritornato quello degli inizi: un guastatore,  solo contro tutti, solo che dall'altra parte, tra gli inseguitori

Quando nel 2000 Valentino Rossi diede le prime sgasate a un 500, le moto che due anni dopo aumentarono di cilindrata (da 500 cc a 990 cc) e di tempi (da due a quattro) trasformandosi così da classe 500 a MotoGP, Joan Mir aveva tre anni, Franco Morbidelli sei, Alex Rins cinque. Dei primi tre della classifica mondiale della MotoGP 2020, forse il solo Morbidelli può ricordare il Dottore alle prese con una motocicletta non ufficiale, le cosiddette clienti. È dal 2002 infatti che Valentino Rossi è sempre stato alla guida di un team direttamente gestito dalla casa madre. Ieri in Portogallo ha corso la sua ultima gara da pilota ufficiale.

 

Franco Morbidelli sarà anche il primo a vedere questo filo che ha unito due decenni essere tagliato. Il 23 marzo del prossimo anno, in Qatar, al Losail International Circuit, il pilota di Tavullia infatti ritornerà a guidare una moto non ufficiale, scalzato da Fabio Quartanaro, che il 19 marzo del 2000, il giorno del debutto di Rossi nella classe regina, non aveva ancora compiuto l’anno di vita. La Yamaha aveva scelto così già a gennaio, promuovendo il francese e lasciando al marchigiano la possibilità di scegliere. Gli aveva dato il tempo di decidere del suo futuro, perché, si saranno detti in Giappone, non si può mica pensionare dall’alto chi su una loro moto aveva ottenuto quattro mondiali, aiutando l’azienda ad uscire da un periodo nero nel quale aveva pensato pure all’addio alle corse. E così a settembre, dato che Rossi aveva deciso di continuare, la Yamaha gli ha affidato la seconda moto del Team Petronas, quella guidata proprio da Quartanaro.

 

Valentino Rossi in sella alla Honda clienti davanti all'Aprilia ufficiale di Jeremy McWilliams nel Gran Premio di Gran Bretagna del 2000 (foto Wikimedia Commons) 
   

Rossi a Losail avrà già compiuto 42 anni e in molti nelle ultime stagioni si sono domandati il perché il nove volte campione del mondo si ostini a correre nonostante il suo ultimo Mondiale vinto sia datato 2009, che dalla lotta per il titolo manchi dal 2016 e che la sua ultima vittoria in un Gran Premio risalga al 2017. “Mi diverto ancora”, ha risposto in più di una occasione.

  

Come possa uno come Rossi, uno abituato a vincere e a essere il migliore, continuare a divertirsi lontano dalle prime posizioni se lo è chiesto, e più volte, anche Giacomo Agostini, quindici mondiali vinti, il corridore più titolato nella storia del motociclismo (ma erano altri anni e si poteva correre in più categorie). “Valentino, per quanto fatto in carriera, si è guadagnato il diritto di decidere quel che vuole. Io so che quando ho iniziato a vincere meno, ho cominciato a pensare che forse il mio tempo stava finendo. Mi sentivo male, umiliato a leggere sui giornali che Agostini era finito solo perché ero arrivato secondo. È una cosa personale. Io non me la sentivo, ma se ad altri questo non dà fastidio perché fermarsi?”.

  

Rossi continuerà, alla faccia di tutto. Dei risultati che non arrivano, dei tifosi che diminuiscono e che sono sempre più scettici, dell’opinione pubblica che ormai, anche senza troppo mascherarlo, inizia a pensare a un Dottore affetto da sindrome di Peter Pan, incapace ad arrendersi all’evidenza di non essere più il migliore. D’altra parte nello sport, come in molti altri campi, conta chi vince. Al massimo ci si ricorda del primo degli sconfitti, gli altri sono nomi e cognomi buoni per riempire classifiche e ordini d’arrivo.

   

Eppure in questa resistenza a tutto – ai piazzamenti ormai a due cifre, ai nomi che si aggiungono nell’albo d’oro rendendo il suo sempre più distante dall’attualità, agli anni che si accumulano sulla carta d’indentità – Rossi non dimostra l’incapacità di ritirarsi, ma la difesa di fare ciò che più gli gli è congeniale: fregarsene di tutto, riscrivere le regole.

 

Valentino Rossi è arrivato nel motociclismo come un ciclone. Ha ridisegnato usanze ed espressioni, ha rivoluzionato l’immagine di uno sport che negli anni Novanta era uscito dalla nicchia degli appassionati duri e puri per accogliere un pubblico più vasto, che non sempre aveva (almeno la domenica) una motocicletta sotto il sedere, il giubbotto in pelle o la tuta con le saponette. Da ragazzo, e poi da appena adulto Rossi è stato cassa rullante, ritmo accelerato, ridifinizione di un mondo.

 

Per qualche anno si era imbolsito, era diventato regola lui stesso. 

 

Ora è tornato quello dell’inizio. È l’uomo che in molti si augurano si tolga di mezzo, ma che di mezzo non ha voglia di togliersi, un attore al tramonto, forse, ma ancora in grado di ritagliarsi una parte, di catturare l’occhio dello spettatore, solo grazie alla sua presenza. Nella sua resistenza, nel suo non voler mollare manetta e sella Rossi è ridiventato eccezione, ha ritrovato la sua essenza, quella di guastatore, quello di chi se ne frega del così deve andare.

 

Rossi c’è. Ci sarà anche il prossimo anno, poi si vedrà. E sarà ancora solo contro tutti, come ai tempi nei quali vinceva. Solo che dall’altra parte, tra i tanti che inseguono, un carnevale di pilota. 

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